Cristiani martiri
C’è ancora Nerone

«Sono sicuro che i cristiani perseguitati sono più numerosi oggi che nei primi tempi». Così aveva detto il Papa lo scorso 26 dicembre in occasione della festa di Santo Stefano, il primo martire.

Un’affermazione forte, che non chiedeva al mondo di schierarsia quanto meno di ammettere questo incredibile dato «contabile»: nemmeno le persecuzioni dei primi imperatori romani avevano fatto tante vittime quanto i cristiani ne stanno subendo oggi. I fatti accaduti e che stanno quotidianamente accadendo in queste settimane confermano purtroppo la verità di quella drammatica constatazione di Francesco. Il martirio poi non è solo la perdita della vita, ma è anche la costrizione a fuggire dalle proprie città, spesso perdendo tutto, come sta accadendo in Iraq, in Siria e ora anche in Libia. Il Patriarca cristiano caldeo, Louis Raphael Sako, ha detto che neppure Gengis Khan e suo nipote Hulagu, che saccheggiarono Baghdad nel Medioevo, furono così feroci contro la comunità cristiana come lo sono oggi gli jihadisti dell’Isis. Perché è esploso tanto odio contro le minoranze cristiane? Dieci anni fa, in piena propaganda sullo «scontro di civiltà», si poteva pensare che i cristiani fossero finiti nel mirino in qualità di rappresentanti, per quanto del tutto inconsapevoli, di una civiltà che veniva considerata nemica, quella dell’Occidente. Oggi il contesto è molto cambiato, le potenze ricche alle prese con i problemi di una crisi infinita hanno ridimensionato le loro strategia verso quei Paesi, per i quali a inizio millennio si era addirittura fatto ricorso alle guerre. E anche i fanatismi ideologici sembrano aver fatto il loro tempo, rivelando tutta la pochezza intellettuale delle loro posizioni.

Perché allora proprio oggi la persecuzione contro i cristiani si fa più acuta? E perché questo accanimento sembra essere un fattore così diffuso, in contesti che presentano comunque situazioni e motivi di crisi molto diversi? Oltretutto le vittime cristiane sono quasi sempre esponenti di ceti poveri, senza nessuna chance di rivestire ruoli di responsabilità nei loro rispettivi Paesi. Se c’è infatti un dato che colpisce e accomuna tutte le situazioni che la cronaca ci sta proponendo, è proprio l’inermità delle vittime. Non solo non danno mai pretesto per essere attaccate, ma non si dotano neppure di mezzi per una possibile autodifesa. È proprio questo essere inermi il fattore di scandalo: perché è il simbolo di un’altra possibile idea di convivenza in quelle terre, che oggi i fanatici delle nuove leve vogliono estirpare alle radici. Essere indifesi significa che in quei luoghi si poteva vivere in pace tra diversi, che non c’era bisogno di chiudersi in roccaforti per difendere la propria identità. In un’intervista a Radio vaticana, padre Mtanoius Haddad rappresentante della chiesa greco- cattolico melchita ha sottolineato come sia stata significativa la manifestazione di solidarietà a favore dei cristiani promossa dai musulmani a Baghdad. Ha detto: «Noi, musulmani e cristiani, siamo un solo popolo iracheno. Così i musulmani sono usciti per strada tenendo in una mano il Corano e nell’altra la Croce». È questo modello di convivenza che i fondamentalisti, rinascendo sotto forme sempre nuove e con modalità sempre inquietanti, combattono. Lo combattono probabilmente augurandosi di trovare una reazione che dia ragione di questa loro dichiarazione di guerra unilaterale. Invece trovano sempre e solo un popolo disarmato, irriducibilmente pacifico, che non perde la propria visione di vita nonostante la durezza del proprio destino. Per questo difendere questi cristiani non significa solo difendere la loro fede e il loro diritto a vivere nella loro terra, ma difendere quello che rappresentano: l’idea di una società in cui uomini di fedi diverse convivano sentendosi un unico popolo.

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