Fusioni a freddo
non sono gradite

Non è che, con tutta la buona volontà, si possano leggere i referendum locali sulle fusioni dei Comuni come fanno i “grandi” con le analisi del voto politico. Ci mancano gli strateghi, i Mannheimer, i Gasparri, i Barbacetto e, soprattutto, abbiamo carenza di Bruni Vespa e Lilli Grubers (essendo di cognome straniero, prende la “s” plurale all’inglese).

Dobbiamo stare nel nostro piccolo e, visti i risultati in provincia di Como (ma anche quelli, più netti, in Valtellina), enunciare soltanto ciò è nelle nostre possibilità. Questo: tutto sommato, ancora amiamo i campanili.Per ricapitolare, in provincia si è votato in 23 centri per decidere di sette aggregazioni. Risultato: a fronte di tre fusioni importanti approvate (Bellagio e Civenna; Drezzo, Gironico e Parè; Ossuccio, Lenno, Mezzegra e Tremezzo) e a una incerta (Faloppio, Ronago e Uggiate), tre, sul lago, sono state seccamente respinte. In Valtellina la bocciatura è stata uniforme: i partecipanti ai referendum che si sono tenuti in Valchiavenna e nel Tiranese hanno rigettato ogni ipotesi di unione. Raccontano che, in valle, ancora echeggia il coro “Chi non salta è un chiavennasco” intonato dagli abitanti di Gordona.

Sfogato il sorriso che spontaneo sorge davanti a certe manifestazioni di appartenenza territoriale, bisognerà pur interrogarsi su questa persistente resistenza “dal basso” alle modificazioni del territorio. Le ragioni della finanza sono esplicite: Comuni, Province e Regioni sono troppa roba e costano troppo. Siccome il bilancio dello Stato è diventato un abisso insondabile, occorre risparmiare, razionalizzare, ridurre. La ragione dice anche che nessuno vuole abbattere il campanile di un certo paese o cancellarne il nome dai libri e dalla memoria: si parla di alleanze amministrative, ovvero un municipio invece di quattro, una giunta invece di quattro e laddove certe pratiche non sono passate di moda, una tangente invece di quattro.

Come si vede il ragionamento, da un punto di vista economico, è difficile da confutare. Volendo, potremmo giocarci la carta della globalizzazione e sostenere che, in epoca di Internet, di continui collegamenti sovranazionali e di scambi che non possono essere imbrigliati, deve essere proprio una battaglia di retroguardia quella che ci fa schierare a difesa del campicello e votare per la salvaguardia della frazione, per l’orgogliosa sopravvivenza formale del nostro pezzettino di mondo.

Ma se è facile, e probabilmente anche giusto, presentare tutte queste annotazioni, la ragione di una certa ostinazione localistica, superata in alcune zone ma ancora molto radicata in altra, va forse cercata più nel profondo, ovvero nel sostanziale convincimento che se ci portano via il Comune non resta più nulla a salvaguardia della nostra identità sociale. Non lo Stato, dato per perso da tempo dietro le bizze dei partiti, le immaturità dei movimenti e per soprammercato messo fuorigioco nella sua sovranità dal potere di “Europa padrona”. Non le Regioni, anch’esse invischiate nel gioco degli interessi politici e in fondo mai nate sotto il profilo del riconoscimento territoriale. Non le Province: troppo a lungo Enti nati per pretesto, cui poco è stato affidato se non le licenze di pesca e il sale da spargere sulle strade.

Forse, l’idea di cedere il proprio Comune, per quanto piccolo, a un’entità più allargata sembra quasi una resa incondizionata al blob amministrativo confuso, lontano e in sostanza inconcepibile che ci circonda e al quale con sempre meno convinzione facciamo riferimento in quanto cittadini. Prima di aspettarsi un esito diverso dei referendum bisognerebbe allora che chi ha in mano la gestione di enti più generali e complessi dimostri di saper amministrare con la saggezza, la praticità e la disponibilità al confronto che la gente pretende (e spesso ottiene) dai sindaci dei paesini.

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