Giancarlo, la mostra
che ferma il tempo

Ci fu un tempo in cui questi uomini erano vivi, queste donne belle e desiderabili, questi fiori freschi e profumati, queste tavole apparecchiate, queste pance affamate, queste galline stupide come vuole la tradizione, questi letti d’ospedale ancora vuoti ma forse, chissà, già prenotati. A pensar bene però ci potrebbe già essere un errore in questo attacco, principalmente nell’uso del tempo verbale.

Da un tempo all’altro, perché così fluisce il tempo, quello ineffabile, dilemmatico, cammina senza sosta, dentro o fuori di noi, nessuno sa con precisione.

Circola come sangue nelle vene e nelle stanze in cui si dipana Time out, la mostra di Giancarlo Vitali che presidierà Milano fino al tardo settembre. E si dovrebbe scrivere mostre, poiché sono quattro le sezioni in cui si articola.

Questione di numerologia.

Se da una parte tre sarebbe il numero perfetto a simboleggiare una certa idea di divino, quattro, sia detto senza ingiuria, lo è ancora di più quando distingue le stagioni della vita consone a quelle che, ormai si dice, non esistono più.

Gioca così il tempo in quelle sale, senza tenere in conto di orologi o altre diavolerie costrette a definirlo, ma presentandosi per quello che è, una percezione dell’anima in cui, per sua precisa volontà, si mette a nostra disposizione, liberandoci dal senso di impotenza che diuturnamente abbiamo nei suoi confronti.

Così quel tempo che sfugge alle lancette dei cronometri diventa azione, pensiero, parola, atti concreti, quadri.

Tanti in questi caso, oli, disegni, incisioni, singolarmente unici così come disuguali sono i giorni e noi con loro, benché spesso ci sfugga dalle mani un simile capitale di unicità.

Dev’essere per questo che la mostra si intitola Time out, anglicismo tecnico che si potrebbe compendiare in un’idea di tempo sospeso. Una bolla dentro la quale non esistono passato, presente e futuro o, se ci sono, non hanno differenze, non si contestano. Il tempo puro insomma, ineffabile e misterioso, grazie al quale quegli uomini sono ancora vivi, quelle donne ancora belle e desiderabili, i fiori freschi eccetera.

E i letti d’ospedale sempre vuoti.

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