I comaschi e i candidi
traffici di confine

Un vecchio contrabbandiere di Cernobbio - di quelli che la sanno sempre più lunga degli altri - ancora oggi gonfia il petto se qualcuno, per sua propria sventura, gli chiede di raccontare dei “bei” tempi della sua “dune buggy”, un trabiccolo a quattro ruote senza scocca con il quale, nelle estati dorate degli anni Settanta, il nostro girava per il paese armato di una radiolina e di un vecchio telefono portatile, che pesava una ventina di chili ma che, a sentir lui, non smetteva mai di squillare. Se qualche tabaccaio della Bassa padana lo contattava per un carico, lui prendeva nota dell’ordine e chiamava via radio i suoi ragazzi, che aspettavano giorno e notte appostati sul Bisbino: «È il capo che parla... Servono trecento Marlboro... Muoversi».

Gli anni di galera - e per alcuni sono stati tanti - non hanno mai contato granché. Contavano le belle donne, la pelle abbronzata, i night di Lugano e i soldi in tasca, tanti. Soprattutto, guadagnati onestamente.

Rubati? Ma quando mai. Per quanti sforzi lo Stato abbia messo in campo sul fronte dell’evasione fiscale, l’insospettabile provincia di Como rimane - con le debite eccezioni - un territorio molto sui generis, soprattutto per quanto attiene ai suoi rapporti - tutti economici, prima che culturali - con il Canton Ticino.

Dall’epoca di quella “dune buggy”, e prima ancora da quella di ramine e bricolle, il furto finanziario perpetrato ai danni della Repubblica per il tramite di un caveau svizzero - nel caso del denaro esportato illegalmente - o per quello dell’evasione dei dazi - con le sigarette negli anni ”buoni” - non è stato mai percepito come un reato in senso stretto. Le cronache giudiziarie sono zeppe di contrabbandieri che, in ginocchio, pregavano in lacrime i tribunali perché fosse loro risparmiata una condanna, «ché davvero, signor giudice, non ho mai rubato a nessuno».

Negli ultimi anni è cambiato poco. Non ci sono più le sigarette, ma c’è l’oro, e con l’oro i soldi. La Svizzera, con o senza segreto bancario, resta la cassaforte ideale, e probabilmente basterà un prestanome su un conto a perpetrarne il mito. Sembra quasi che ci sia una generazione di comaschi che resiste, per la quale valgono le stesse regole di allora, lo stesso senso di impunità, la stessa sincera autoassoluzione. Ventidue ne ha indagati la Procura della Repubblica di Como (ne diamo conto a pagina 13), nell’ambito di una indagine per riciclaggio che non racconta nulla di nuovo. Tra Como e Olgiate, chiunque abbia bisogno di una mano troverà terreno fertilissimo. La professione di “spallone” resta tra le più ambite, anche se la fatica non è più la stessa dei tempi delle gerle cariche di tabacco da trasportare di corsa giù per i bricchi del lago. Accorgersene fa anche un po’ sorridere: gli italiani restano un popolo di evasori, nonostante gli scudi fiscali applicati con tassi ridicoli (roba che in Germania o in un qualunque altro Paese europeo sarebbe scoppiata la guerra civile), nonostante le sanatorie cicliche, il benedettissimo segreto bancario e la tecnologia messa in campo da guardia di finanza e agenzia delle Dogane. Sul confine il viavai è infinito. Decine, centinaia di milioni di euro, avanti e indietro, indietro e avanti. Restiamo sempre gli stessi: convinti che il “conticino” in Svizzera sia vitale quanto il pizzo di Cantù sul comò della nonna. E che in fondo caricarsi un po’ di soldi in macchina sia tutto fuorché un reato.

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