Il caso ultrà
“spirito del tempo”

Il “fattaccio” verificatosi allo stadio Olimpico in occasione della finale di Coppa Italia è figlio di quello che i puristi definirebbero Zeitgeist, cioè, lo Spirito del Tempo. Si tratta del clima culturale di un’epoca, di quel vento che soffia forte sugli uomini giungendo a modellarne silenziosamente pensieri e abitudini.

Come l’arte e la letteratura, anche il calcio ritrae la temperie culturale di un paese. Per questo motivo, il calcio è molto più che un semplice evento agonistico. È un coacervo di simboli, talora contraddittori, da cui è possibile cogliere le costanti che costituiscono la scorza di una nazione di cui il calcio è una perfetta metafora. Nel gioco, la psicologia delle masse suole denudarsi, quasi come una sorta di disvelamento del loro eterno infantilismo. Nel gioco vengono fuori i vili e i coraggiosi, gli istinti hanno il sopravvento sul calcolo ed anche le piccole slealtà diventano rivelatrici. Da tempo, ormai, il calcio ha cessato di essere un gioco. È industria, marketing, un immenso business che muove una quantità incalcolabile di danaro. La sua portentosa capacità di generare ricchezza si fonda su una osmosi del tutto singolare che tutti fingono di non vedere.

Infatti, dai gangli del calcio passa tanto danaro, non sempre regolare, che serve ad irrorare il sistema mitigandone gli innumerevoli squilibri. Non è un caso che tutti i governi della Repubblica hanno considerato il calcio un mondo a sé di cui è inevitabile tollerare gli abusi: i bilanci falsi, le false fatturazioni, le sponsorizzazioni fasulle. C’è un modo sottile, in questo paese, di fare politica fingendo di non farla. In questo senso, il calcio rappresenta il modo più efficace ed elegante, come sanno bene tanti presidenti che, attraverso il calcio, sanno crearsi un consenso da cui sgorgheranno protezioni e favori, dunque profitti.

Il calcio resta, pertanto, una zona franca che si giustifica anche per la sua natura di bromuro sociale, di panem et circenses. Una vera e propria “arma di distrazione di massa”. Il calcio italiano è il perfetto ritratto del nostro popolo, con tutte le sue contraddizioni, piccole e grandi. A noi italiani piace vincere e, soprattutto, sentirci amici dei vincitori. Ci ripaga delle nostre sconfitte quotidiane e ci restituisce la sicurezza perduta. Per gli italiani, la vittoria va sempre celebrata, in qualunque modo conseguita: inficiarne la legittimità è un’infamia inaccettabile perchè l’etica non può intaccarne l’estetica. Aveva ragione Pasolini nel dire che il calcio è “l’ultima, vera, rappresentazione del sacro”. Una religione laica, con i suoi eccessi e i suoi integralismi. In quest’ottica, lo stadio è il tempio in cui si celebra un rito dal sapore epico. Per questo motivo dovremmo avere l’onestà di ammettere che anche quella pistola dell’Olimpico è figlia dello Zeitgeist, di questa importanza abnorme e grottesca che la società ha regalato al calcio, da cui trae origine quella sorta di intolleranza “religiosa” di certe tifoserie che abbiamo colpevolmente sottovalutato e di cui, quindi, siamo tutti responsabili. E’ questa la vera resa davanti a Genny ’a Carogna, non quella dello Stato. Prendersela con le “istituzioni” è solo un miserabile pretesto per evitare di sentirsi complici.

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