Il mercato del mobile?
Questione di fiducia

Mobili e Salone del mobile, l’alleanza è stretta e consolidata e in questi anni ha assunto un’importanza diversa da quella degli anni pre-crisi; ha fatto ragionare sul fatto che il pregio del made in Italy va più che mai cullato e coltivato, ma che in Italia gli atavici destinatari, gli italiani, spesso non lo possono acquistare. Gli operatori definiscono il salone come una “grande festa” in cui l’entusiasmo beve un flaconcino di energia e tutti partono per Milano con tanta speranza, voglia di seminare e raccogliere.

I mobilieri della Brianza, rispondendo a Roberto Snaidero, che ha analizzato sulle colonne dell’Ordine la situazione attuale del comparto mobiliero, sono stati convinti dall’esperienza che il mercato interno è ancora elefantiaco, quello estero invece corre come un ronzino e rassicura molte aziende.

Fatte salve le analisi sul perché c’è questa differenza e la forbice tra i due mercati invece che chiudersi si spalanca, il dibattito tra gli imprenditori si accende sul Bonus mobili che ha fatto aumentare le vendite interne fino al 5%. Benino, ma non ci salva, dicono i mobilieri. Meglio di niente, ma il grande impegno italiano in termini di formazione delle professionalità del settore legato all’arredo, di investimenti per penetrare il mercato nei modi più disparati e di escamotage per incrementare le vendite non viene ripagato dal bonus. La tassazione è ancora troppo alta per chi produce e che, se da un lato capisce che i prezzi del mobile bello fatto in Italia sono troppo alti per gli italiani, dall’altro capisce anche di non poterli abbassare, proprio anche a causa del peso dell’imposizione fiscale.

Ma non è solo qui il problema del mercato interno fermo. Gli economisti fanno studi profondi sul tema, ma ci sono anche aspetti, di carattere più sociologico che economico, che sfuggono alle leggi economiche e frenano le vendite. Dietro i giovani che mettono su casa, soprattutto in Brianza, ma non solo, spesso non ci sono più padri, fratelli, zii o nonni che, costruendo ancora mobili senza essere colossi imprenditoriali, riescano a trasferire ai giovani la passione per l’arredo fatto bene. Dalle botteghe, che non ci sono quasi più, usciva odore di colla e legno che permetteva anche ai bambini, che giocavano con gli scarti, di capire se dalla lastra sarebbe uscito un mobile di valore oppure no. Si creava un legame affettivo con l’oggetto in nuce che poteva poi trasformare i bambini in acquirenti del bel made in Italy. Ora questo desiderio del bello e fatto bene è venuto spesso meno. Lo stile di vita è diverso, per lavoro la casa si cambia più frequentemente, quindi il mobile segue il turn over del residente e non deve durare cent’anni, la cucina si spera ci sia già nell’appartamento da affittare, i mercatoni sanno proporre mobili “medi” e i giovani spesso non hanno un lavoro così fisso da permettere loro entrate di valore costante o crescente fino alla pensione. Quindi va da sé che l’arredo facile ed economico vinca, la mentalità generale è cambiata, l’arredo importa ma fino a un certo punto. Deve essere bello da vedere, ma chi è capace di riconoscere un cassetto di qualità da uno da battaglia? Pochi. E poi c’è lo stipendio che, se non è sparito, è diminuito e le aziende sono restie a fare credito ai propri clienti. Il rapporto cliente-fornitore è cambiato, anche nelle vendite al dettaglio. La fiducia da dare e ricevere è parola antica. La stretta di mano non solo non basta, ma non serve, spesso è controproducente perché nasconde tra i palmi il ricorso legale, o il recupero crediti. Chi vende, a causa della tassazione e delle grave insolvenza non si fida più a fare credito, chi acquista avrebbe bisogno del credito, ma non lo trova. Quindi va all’Ikea e il made in Italy lo compra lo straniero.

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