Il sacrista non fa
un mestiere normale

Ha sparso ampiamente in giro interesse, curiosità e clamore, la notizia che per un posto di sagrestano il parroco di Lugano è pronto a pagare la bella somma di 3800 euro al mese.

Assorbita la botta e ricorrendo a qualche riflessione emerge subito però che la professione di sagrestano non è da inquadrare in un impiego comune: sette, o otto ore e poi a casa a riposare. Non sono di certo un esperto di funzioni sacre, tanto meno frequentatore di sagrestie. Non ho nemmeno mai fatto il chierichetto, come tanti amici miei, quando ero bambino. Però ho conosciuto diversi sagrestani e alcuni in particolare, anche perché come cronista spesso li ho frequentati, entrando addirittura in amicizia, per scroccare qualche informazione nascosta. I sagrestani sapevano sempre tutto. Dunque quello del sagrestano è mestiere difficile per il quale occorre una dedizione completa, una certa predisposizione, per non dire passione assoluta, conoscenza della cose ecclesiastiche, ovviamente della religione, dei riti, delle cerimonie: dal battesimo, al matrimonio, al funerale.

Il termine vero è sacrista, che viene da sacro. Il sacrista di Sua Santità è, come dice il Devoto Oli, il vescovo preposto al sacrario apostolico che ha in custodia i paramenti e gli arredi della Cappella pontificia. Fino a qualche decennio fa i sagrestani delle parrocchie che ricordo io, non godevano di paghe del tenore di quella promessa dal parroco di Lugano, comunque potevano mandare avanti la famiglia e godevano di un’abitazione.

L’amico Adelio Fusi, detto “ul sacrista”, della parrocchia di Santa Maria Nascente, faceva anche il contadino nelle poche ore libere che le funzioni religiose gli lasciavano. Mi raccontava che durante la guerra, quando da Como segnalavano l’arrivo di incombenti formazioni di bombardieri alleati, lui doveva salire in cima al campanile a suonare “campana martello” per invitare il popolo a scendere nei rifugi. Sapeva che Erba era già stata assai tragicamente bombardata. Dall’alto vedeva sua madre e i fratelli che correvano, zoccoli in mano, verso il riparo, e lui era su, che guardava gli aerei che passavano: «Me la fasevi sota».

Saliva in cima al campanile anche quando si approssimava un temporale che aveva tutta l’aria di essere micidiale e scaricare una grandinata. Allora suonava quello che era, dai contadini, chiamato “el rümm” (non è mai stato possibile trovare l’origine di questo nome): il suono prodotto dal battacchio contro il bronzo del campanone era così efficace da portare tra le nubi delle vibrazioni tali da far sciogliere il ghiaccio: almeno così la raccontavano “i paisan”. Quando giungevano i rintocchi di concerti di campane lontane, Adelio era in grado di capire da quale campanile venivano: «Questo è il campanile di Moiana, questo è quello di Carcano, questo di Anzano…».

Si commuoveva, con una lacrima, l’Adelio quando raccontava di aver assistito il prevosto don Erminio Casati, in una notte d’inverno del ’43, al quale avevano portato, per l’ultima confessione, Giancarlo Puecher prima della fucilazione. Ecco quindi che “fa el sacrista” non è proprio professione normale, anche se a suonare le campane adesso ci pensa il computer.

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