La bontà affascina
più dell’odio contagioso

Non darglielo… non dargli il tuo odio, quello che meritano, quello con cui dovrebbero essere cancellati. Non dargli il privilegio di essere odiati… il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro». Che bellezza le parole recitate da un ispiratissimo Giuseppe Adduci. Parole per conoscere l’odio, per superarlo, per cancellarlo dal dizionario delle nostre anime, per trasformarlo in riflessione, in occasione di confronto. Per scoprire che l’odio crea contagio, ma la bontà è molto più affascinante. La lanterna di Diogene si è accesa, giovedì sera, sul teatro San Teodoro di Cantù. Ha illuminato una platea che ha risposto all’appello del nostro settimanale dedicato al volontariato, al terzo settore, alla solidarietà, di provare a superare quello che è, ormai a tutti i livelli, un problema reale e attualissimo: le parole dell’odio. Quando abbiamo pensato a un tema per l’annuale festa di Diogene, ci è sembrato naturale dedicarlo al linguaggio dell’odio. Da un lato perché la comunicazione è la nostra essenza, sia professionale che umana. Dall’altro perché Diogene è nato proprio con uno scopo: provare a raccontare il bene che, com’è scontato, mal si concilia con la violenza che caratterizza sempre di più i rapporti – soprattutto quelli virtuali – tra le persone.

La risposta (commovente e per certi versi andata oltre le nostre aspettative) del pubblico, del mondo del volontariato, degli studenti, delle comunità di giovani che hanno affollato il teatro ha chiaramente e fisicamente dimostrato come oggi, più che mai, si senta il bisogno di un altro modo di comunicare. Ed è un bisogno condiviso da una parte sempre più numerosa di popolazione, stanca di dover coniugare all’ira ogni confronto social su idee e opinioni. Paolo Picchio, papà di Carolina, ha ricordato con una testimonianza toccante – assieme a Ivano Zoppi – come le parole possono anche uccidere. È successo a sua figlia: «Senza tutta quella cattiveria, persino da gente che neppure la conosceva, lei sarebbe ancora qui».

Senza bisogno di arrivare a un simile abisso, le parole feriscono. Feriscono molto spesso le donne, prese di mira anche da un linguaggio sessista, come hanno spiegato e raccontato Alle Bonicalzi e Paola Minussi. Hanno sicuramente ferito Amanda Cooney e Olivia Molteni Piro, “colpevoli” di considerare chiunque – stranieri compresi – meritevole di attenzione, affetto, diritti. Feriscono e, facendolo, strumentalizzano, ha sottolineato Nello Scavo, sensibile cronista di Avvenire. Noi giornalisti, spesso, facciamo come il mantice con il fuoco dei ceppi del camino: soffiamo su quell’odio, tradendo il nostro ruolo, la nostra deontologia. È quanto ha spiegato Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine lombardo dei giornalisti: sono ben 400 le segnalazioni disciplinari per l’uso di linguaggio d’odio usato da chi ha invece l’obbligo di informare con continenza.

«Dobbiamo sapere chi siamo con consapevolezza», ha concluso Anna Sfardini, ricercatrice ed esperta di comunicazione. «Dobbiamo educare a un linguaggio empatico verso l’altro, capire che le parole che usiamo ci rappresentano sono le chiavi di volta per migliorare il livello della nostra comunicazione sociale».

Noi, a Diogene, abbiamo scelto questa strada. Il pubblico, che giovedì ci ha fatto l’onore della sua presenza, dimostra che non è un vicolo cieco. Rialziamo la lanterna. Alla ricerca del vero uomo. Il derubato che sorride e che, così facendo, «ruba qualcosa al ladro».

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