La Francia spariglia
Qualcosa è cambiato

Basta con l’austerità imposta da Frau Merkel. La Francia è stufa di fare i compiti a casa. Nella legge di bilancio Parigi prevede di “sforare” fino al 4,5 per cento del Pil per quest’anno e fino al 4,3 per cento per il 2015. Il famoso limite del tre per cento previsto dai vincoli di Maastricht, proclama Hollande, verrà rispettato solo nel 2017. Quanto al pareggio di bilancio, se ne riparla nel 2019. Et voilà: les jeux sont faits. La Francia ha spostato il Fiscal Compact più in là.

“Abbiamo preso la decisione di adattare il passo di riduzione del Pil”, ha spiegato il ministro delle Finanze, Michel Sapin, “alla situazione economica del Paese. La nostra politica economica non sta cambiando, ma il deficit sarà ridotto più lentamente del previsto a causa delle circostanze economiche”. I francesi, si sa, sono più intraprendenti di noi italiani. Siedono sopra una montagna di debito pubblico come noi cugini d’Oltralpe, ma certamente sono meno subalterni alla Germania dai tempi di Sedan. In gioco in questo caso non c’è l’Alsazia e la Lorena, ma la stessa ripresa economica.

Dopo sei anni di crisi non è più possibile far finta di niente e continuare a svalutare il lavoro per rafforzare la moneta. La Germania vive ancora l’incubo di Weimar, quando il marco si era svalutato al punto che quando andavi al ristorante ti dovevi portare i milioni con un sacco e per un francobollo occorrevano dieci miliardi di marchi. Lo statuto della Bce, finalizzato soprattutto al contenimento dell’inflazione (non più del due per cento), risente ancora oggi di questa preoccupazione storica. Se siamo in deflazione e abbiamo milioni di disoccupati è anche per questo. Intendiamoci: fino a qualche anno fa il rigore poteva andar bene. Oggi la congiuntura è cambiata completamente e non ha alcun senso mantenere invariate le tavole della legge.

I francesi si sono stufati di questa gabbia capace solo di salvaguardare l’economia di Berlino, nonostante la cancelliera si ostini a ripetere che i Paesi dell’Unione monetaria “devono fare i loro compiti per il loro benessere”. Del resto non è assodato “che non ci può essere crescita sostenibile senza finanze solide”. È dal 1936, dai tempi della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, che si conoscono altre strade, in tempi di crisi, per rinvigorire la domanda e quindi i consumi e di conseguenza la produzione e l’occupazione, con un effetto moltiplicatore. Del resto sono sempre di più gli economisti, dal 2008 in poi, che sostengono che i governi devono indebitarsi per finanziare la riduzione delle tasse e sostenere la spesa pubblica.

Il ministro delle Finanze francese ha come rotto un incantesimo, affermando chiaramente che la politica economica di Bruxelles deve cambiare rotta. Gli sforzi fin qui fatti dalla Banca Centrale Europea, che ha continuato a iniettare moneta negli istituti di credito di Eurolandia, si sono dimostrati vani. La Francia, che ora sfida apertamente Bruxelles e Berlino, ha un debito pubblico pari al 98 per cento del Pil ma è stufa di soffrire le politiche di austerity. Anche se ha i conti pubblici in disordine.

Naturalmente l’auspicio è che anche il nostro Paese, che ha il massimo storico di disoccupazione e un giovane su due senza lavoro, segua l’esempio francese. Ma non è così semplice. Il debito pubblico francese è nelle mani soprattutto dei francesi, così come quello giapponese. Quello di Tokyo è uno degli stock di debito più alti del mondo ma proprio perché si tratta di creditori giapponesi ha meno problemi di noi. Mentre il debito italiano è per oltre metà in balia dei grandi fondi di investimento internazionali e dei fondi sovrani. Se il leviatano della speculazione ritiene che l’Italia non è più un Paese solido perché continua a sforare, può spostare i suoi capitali da altre parti, portandoci potenzialmente sull’orlo del baratro come era avvenuto nell’autunno del 2011, quando Berlusconi su pressione dello spread fu costretto a dimettersi e lasciare il passo a un governo di tecnici capitanato da Mario Monti. Ma è certo che come la Francia, l’Italia, la seconda manifattura d’Europa, non può limitarsi a seguire come uno scolaretto le indicazioni della Germania, come hanno fatto Paesi molto più deboli come Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia. Qualcosa, insomma, è cambiato.

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