La parola che unisce
tre Papi diversi

venne un santo chiamato Giovanni. Proclamato dal Papa “venuto quasi dalla fine del mondo” e portato agli onori degli altari con l’altro pontefice, “venuto da un Paese lontano”.

Oggi, come ieri, tutte le strade portano a Roma. Il centro della cristianità è caleidoscopio di genti, intreccio di lingue, crogiolo di fedi autentiche, mescolanza di etnie, arcobaleno di facce giunte da ogni dove, per assistere a una liturgia vibrante di solennità.

“Qui tutto il mondo è rappresentato”, direbbe Giovanni XXIII, pronunciando le stesse parole d’esordio del celebre discorso alla luna e della carezza ai bambini. Qui oggi si ferma la Storia, per un evento di portata planetaria. Forse irripetibile. Quattro papi sugli altari: Roncalli e Wojtyla, Francesco e Benedetto XVI, papa emerito.

È l’ottava di Pasqua, è la festa della Divina Misericordia. Parola tanto cara a Roncalli che voleva una chiesa che usasse non il pugno di ferro, ma “la medicina della misericordia”. Un vocabolo che è leit motiv delle omelie di Francesco e per molti versi il Dna dei tre pontefici germinato in terre e contesti geopolitici diversi, la cifra dei loro pontificati.

Gli arazzi svelati nei giorni della vigilia hanno proposto il volto bonario e paterno dei due Papi, che a stento crediamo la gente chiamerà con il nuovo appellativo: San Giovanni XXIII e San Giovanni Paolo II.

Roncalli rimarrà per tutti Papa Giovanni, il Papa buono o il Papa della bontà; Wojtyla il Papa Grande. Il bergamasco è il Papa pastore che rassicura il suo gregge, il polacco è il Papa energico, capace di portare avanti la rivoluzione giovannea (leggi anche Concilio). Due pontefici che sono come le facce di una stessa medaglia, quella del pontificato di Francesco, tessitore di queste due figure.

La data del 27 aprile è degna di essere inserita non solo fra i più grandi eventi religiosi, ma anche in quelli mediatici.

Giovanni XXIII resta il Papa il bianco e nero, quello della candida luna affacciatasi nel buio della notte il giorno dell’apertura del Concilio Vaticano (11 ottobre 1962), ma anche il Papa che permise alle telecamere di riprenderlo per la prima volta nell’appartamento papale; il pontificato di Giovanni Paolo II è dominato dai colori travolgenti dei popoli abbracciati nei suoi viaggi apostolici. E ora Francesco, il Papa interattivo (anche Benedetto XVI lo era stato) che non disdegna twitter e i selfie con i ragazzi, gli autoscatti poi postati milioni di volte su Facebook, e che la gente ieri ha visto persino in 3D in tv e nei cinema. Tre Papi al passo con le tecnologie dei loro tempi, attenti a comunicare con le nuove generazioni, il futuro del mondo

Il tempo di Wojtyla sembra si sia chiuso solo ieri, quello di Roncalli è lontano. Gli anni Sessanta sono quelli della generazione dei cinquantenni di oggi, quelli che hanno imparato a conoscere Papa Giovanni sulla calamita del cruscotto dell’auto di papà o sulla mattonella appesa nella cucina di mamma. Nei loro ricordi ci sono immagini sfocate di una tv che oggi sembra preistoria.

I giovani di oggi hanno imparato a conoscerlo negli oratori o grazie ai racconti dei genitori e dei nonni. Ora sperano tutti che Papa Giovanni diventi loro patrono. C’è chi come il postulatore GiovanGiuseppe Califano lo vedrebbe come protettore dell’infanzia o chi come il Patriarca Bartolomeo lo vorrebbe patrono dell’unità dei cristiani.

Siamo però certi di una cosa e cioè che Roncalli non vorrebbe essere posto sull’altare. Sembrerà una constatazione controcorrente e forse audace. Papa Giovanni non aspirava ad essere posto in alto, in una nicchia per vedere la gente inginocchiarsi davanti a lui. La sua più grande aspirazione è sempre stata quella di farsi santo. Si trovava in imbarazzo quando veniva chiamato Santo Padre (“io devo esserlo per davvero”, diceva). E nel suo diario scrisse: “La santità non consiste nelle penitenze e nelle cose strane, ma nel cercare in tutto la volontà del Signore, nelle obbedienze, nella mitezza”. Un traguardo sul quale ieri Francesco porrà il suo sigillo.

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