La resa dei conti
è solo rinviata

Non ci saranno agguati ma, se ci saranno, li affronteremo» - questa insieme la previsione e la disposizione d’animo di Renzi alla vigilia del voto di fiducia sul Jobs Act. Il premier conferma con ciò la determinazione a procedere lungo la sua strada, nonostante la posta in gioco sia divisiva come poche altre per il suo partito.

Tradisce al contempo, però, anche la consapevolezza che, dopo la fine della luna di miele con gli elettori, dopo la fronda sorta in alcuni settori influenti dei cosiddetti poteri forti (uno per tutti, il Corriere della sera, per voce del suo direttore Ferruccio De Bortoli), dopo la messa in guardia lanciatagli dalla Commissione europea in tema di rientro dal deficit di bilancio, adesso a complicargli la vita si aggiunge la minoranza interna.

Se c’è un impegno su cui Renzi è stato di parola, è la rottamazione dei vertici del Pd. Dalla sera alla mattina, tutta la dirigenza storica del partito ha ricevuto il benservito, sostituito in blocco da suoi fedelissimi. Fatto unico, questo, nella storia della principale forza della sinistra, abituata a compiere le sue svolte all’insegna del principio storicistico secondo cui il rinnovamento non può che avvenire nella continuità. L’irruenza con gli cui il giovanotto di Firenze si è per catapultato dalla periferia nella capitale ha lasciato letteralmente storditi i malcapitati vertici, ma non c’era bisogno di arti divinatorie per prevedere che era solo questione di tempo perché la vecchia guardia (vecchia in senso anagrafico e, soprattutto, in senso politico) si rifacesse viva, e non con intenti pacifici.

L’arrivo di Renzi al Nazareno non segna infatti solo un cambio generazionale. È anche un cambio di passo politico, anzi ideologico: a voler essere precisi, postideologico, nel senso che va oltre la storia, la tradizione, l’identità stessa del maggior partito della sinistra.

Leaderismo, personalismo, bando alla concertazione con le forze sociali e in particolare di quella sindacali, costruzione attorno alla persona del segretario di un “giglio magico”, ricorso a raffica del voto di fiducia, sdoganamento di battaglie care alla destra: quel che è troppo è troppo. Le stordite opposizioni aspettavano solo il momento di riaversi dal ko subito nonché di trovare l’occasione giusta per tornare a fare la voce grossa. Finalmente l’occasione giusta è arrivata: una proposta di riforma del lavoro che ha fatto riapparire all’orizzonte il fantasma della Thatcher e delle sue battaglie antisindacali. Purtroppo per loro, sarà difficile agli oppositori interni far molto più che la voce grossa. Renzi gliel’ha soffocata (per il momento) in gola tappandogli la bocca col ricorso al voto di fiducia.

Un colpo davvero basso per i “ribelli”: un’eventuale loro defezione in massa farebbe aprire la crisi di governo che poi, nel caso dei senatori, equivarrebbe ad un licenziamento in blocco, visto che nella prossima legislatura non ci sarà più una Camera alta elettiva. Nessuna paura, però, che la battaglia sia finita qui: la resa dei conti è solo rinviata.

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