Quella mano che accoglie
racconta di una città

Ci sono giorni in cui uno si chiede che senso abbia il suo mestiere. Che senso abbia spendere parole, avvitarsi attorno a un aggettivo, a un sinonimo, che senso abbia darsi da fare per trovare una notizia da scrivere, una “apertura” che impreziosisca il suo giornale.

Battute a parte («in effetti se lo chiedono spesso anche i tuoi lettori»), questo spleen, questa sensazione di spaesamento e inadeguatezza, sono figli di un confronto impietoso, almeno fintanto che si resti nel terreno della cronaca: il confronto tra parola scritta e immagine. Qui accanto (ma la ritrovate anche all’interno, nelle pagine di cronaca cittadina) La Provincia pubblica oggi una di quelle foto destinate a decretare la sconfitta di noialtri scribacchini. È una immagine semplicissima, che trasmette la sensazione di essere stata impressa quasi per caso, e che riproduce la silhouette di una giovane donna straniera - somala o eritrea - distesa a riposare sulla grande mano dello scultore Massimo Clerici, autore del monumento che, ai giardini della stazione, commemora le vittime del lavoro.

Postata su Facebook, l’immagine sintetizza e racconta molte cose: l’emergenza, la fatica, il senso del viaggio, il senso del dolore e della speranza, quello della carità e dell’accoglienza, ma anche, se volete, quello di un certo degrado che per molti dei nostri lettori (non tutti, sul punto le opinioni sono discordanti) rimane uno degli aspetti centrali e più insalubri della faccenda.

Di foto analogamente evocative, in questi lunghi giorni di bibliche migrazioni, ne abbiamo viste anche altre, tutte invariabilmente capaci di tagliare le gambe al cronista di turno: un passeggino scassato abbandonato nel verde (qui accanto), la “celebre” mamma stesa a terra con il suo bimbo all’ingresso dello scalo ferroviario, per citarne un paio.

È un tema serio quello della rappresentazione della notizia, quello della convivenza tra testo e immagine. Per anni, molto prima dell’avvento delle nuove tecnologie e del web, si temette che a uccidere il giornalismo - quello inteso alla “vecchia” maniera, forse l’unica, penna e taccuino - sarebbero state proprio le immagini. Una delle rivoluzioni più devastanti per il mondo dell’informazione nel secolo scorso - molto prima e con effetti assai più destabilizzanti della televisione -, fu l’avvento delle riviste fotografiche, nate sull’onda del successo planetario di Life, il magazine americano che per primo pensò di raccontare il mondo per immagini, quelle della natura, delle città lontane, quelle della guerra e dello sbarco in Normandia di Robert Capa e di tanti altri celebri fotografi.

Del resto non di parole ma di immagini vivono i nostri ricordi. E tra vent’anni, a proposito di questa lunga emergenza in stazione, nessuno conserverà memoria di quel che si è detto e scritto, mentre è probabile che in tanti conserveranno nitidissima memoria di queste immagini. In altre parole, da ieri la ragazza stesa a riposare nella mano di Clerici è entrata a far parte della storia di questa cittadina di lago. Che è la città del turismo, di Zuckerberg e delle paratie, dello struscio in vasca, del bianco al sole di piazza San Fedele e dei cavedani pescati all’ombra di Libeskind o sotto i pini marittimi di via per Cernobbio. Ma che è anche una città in grado di aprire una mano per accogliere chi viene da lontano. Un po’ quello che si è cercato di spiegare, con alterne fortune, in questi lunghi giorni. Prima che una fotografia arrivasse, di nuovo, a toglierci il lavoro.

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