Scuola, la riforma
deve far bene alla testa

La scuola in Italia rappresenta, più e meglio di qualsiasi altra componente sociale, il corpo della nazione.

Sarebbe bello vederlo presentarsi alla prima campanella pimpante e “senza zaino” (è un marchio registrato, nonché una sperimentazione tra le più interessanti e rivoluzionarie, in corso da più di 10 anni in alcuni istituti statali toscani), ma al contrario ci arriva puntualmente con il mal di pancia. Così, invece di confrontarci su come si vive in classi dove gli strumenti didattici vengono condivisi dagli alunni e il materiale didattico si lascia a scuola, esattamente come fanno mamma e papà in ufficio - è quanto avviene negli istituti toscani di cui sopra - siamo qui ancora una volta a fare la conta dei prof che mancano all’appello del primo giorno di scuola. E ad assistere alla ridda di concorsi, nomine e ricorsi, che sembra un’eterna replica di “Don Raffaè” (il brano di Fabrizio De Andrè e Massimo Bubola, ricordate?). Con la differenza che, mentre Pasquale Cafiero, la voce narrante della canzone, dopo che i suoi parenti hanno espletato inutilmente gli infiniti passaggi della burocrazia italica, si rivolge al boss (“voi che date conforto e lavoro, / eminenza, vi bacio e v’imploro”), in questi giorni si assiste a un tutti contro tutti e si sono beccati la loro dose di proteste anche diversi presidi che il lavoro lo hanno dato, utilizzando il nuovo istituto della “chiamata diretta” per coprire le cattedre rimaste vacanti. In più di un caso sui giornali sono stati accusati di favoritismi, nepotismi e bandi ad personam, a partire dalla dirigente che, sempre in Toscana, ha assunto la moglie del premier Matteo Renzi.

Eppure, nonostante l’apparente eterno refrain, sembra di vedere dei miglioramenti in quel corpo dolente che è la scuola italiana. Pare che questa volta non siano i soliti dolorini di chi non vuole rinunciare a spiaggiarsi per 2-3 mesi e poi, quando è costretto ad assumere una posizione diversa da quella che aveva sulla sdraio, gli fanno male tutte le giunture e ha bisogno di una settimana o due (quelle dei famigerati “orari provvisori”) per riprendersi. In questi giorni, forse, i dolori sono un poco più acuti e circoscritti che in passato, ma potrebbe essere il segno dello sforzo che viene richiesto per effettuare qualsiasi cambiamento. E qualche cambiamento, nelle polemiche di questi giorni, lo si è ben registrato.

Finalmente, e anche questo è un dato positivo da non sottovalutare, si è smesso di concentrare l’attenzione su questioni come quella “dell’educazione al gender”, che per mesi è parso, almeno sui mass media, il punto più importante della riforma, tale da scatenare guerre ideologiche e psicopatie. Oggi si parla di assunzioni (per una volta tante: 63.712), di un numero anch’esso esorbitante di docenti bocciati al concorso (su 71.448 candidati il 55,2% non è stato ammesso all’orale) e di presidi chiamati a scegliere i docenti mancanti sulla base dell’affinità tra il curriculum di quelli che si presentano e le esigenze della scuola. Al netto di nepotismi e altre cattive abitudini, di per sé l’assunzione per merito e con l’obiettivo di caratterizzare l’offerta formativa di ciascun istituto è una splendida novità, a lungo attesa e che ora va perfezionata con senso di responsabilità, ma sicuramente non deve diventare un capro espiatorio dei disagi di questo avvio di anno scolastico. Non è che fossero migliori quelli in cui a settembre già iniziato centinaia di docenti si trovavano in fila come carne da macello sulle scale dei provveditorati o in aule grandi come teatri in attesa della “chiamata”, ovvero della nomina annuale. E, a lezioni cominciate, mancava sempre e comunque qualche insegnante, reclutato dai dirigenti con supplenze che duravano da settembre a giugno, nel migliore dei casi, o anche di meno.

Massimo rispetto per chi ha fatto ricorso contro l’esito del concorsone e anche per chi deve esaminarlo, ma una selezione netta, che forse è quella che fa più male di tutte, è necessaria: non si possono mandare in classe aspiranti docenti che hanno un rapporto con la lingua italiana non troppo dissimile (solo più hi-tech) di Pasquale Cafiero, “il brigadiero del carcere” di Don Raffaè. L’insegnamento non è un mestiere di ripiego, per chi vuole avere più tempo libero o non è riuscito a fare carriere nell’università piuttosto che nell’editoria. È una passione, una sfida, un lavoro creativo e bellissimo, da cui dipende la salute psicofisica della nazione e, quindi, di tutti noi.A chi lo esercita in questo modo non basta rivolgere un grazie, pur doveroso, ma è giusto dare anche un premio economico. Altra novità della riforma che oggi ha fatto male allo stomaco, ma domani potrebbe far bene alla testa.

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