Immagini di morte
scrivono la storia

 I fotogrammi della mattanza corrono nel web e in televisione nell'ora in cui gran parte della popolazione mondiale ha in corso la digestione, e i bambini fanno zapping alla ricerca di qualche remoto cartone animato. Il volto tumefatto e sanguinolento di Mu'ammar Gheddafi è un'isola di morte in mezzo alla vita esagerata e tumultuante di chi l'ha ucciso, il macabro simbolo del cambiamento in un Paese incendiato dal furore. «Attenzione: le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità», si legge nel sito di un grande quotidiano, prima che il click del mouse apra il sipario dell'orrore, e mostri al mondo intero ciò che resta di un idolo, ormai ridotto ad ammasso di carne quasi senza forma, simbolo stesso della caducità delle cose degli uomini, magnifiche o terribili che siano.
Il dittatore è morto, lo si getta nella polvere come si fa con una statua, perché la sua parte umana è da tempo cancellata e trasformata in una icona, quella del capo feroce e inaccessibile, qualcosa di immateriale di colpo restituita alla sua parte corporea e immediatamente cancellata, vilipesa. In un'altra sequenza, il suo presunto uccisore, Mohammed al-Bibi, un ragazzo con un berretto grigio marchiato dal logo di New York, mostra la madre di tutte le pistole, quella sottratta al Comandante, d'oro, luccicante e mostruosa al tempo stesso. Due trofei, l'uomo e l'oggetto, l'uno conseguenza dell'altro, gettati in pasto a operatori e fotografi, perché la rivoluzione non ha occhi e procede soltanto con l'istinto, la brutalità giustificata dall'odio, il sangue come elemento purificatore dal male.
Così la sensibilità comune, quella che dovrebbe subire un urto potente dalle fotografie spaventose del martirio, è in realtà condotta verso limiti sempre più esasperati da queste stesse immagini, in una sorta di mitridatismo estetico che abitua la mente ad andare oltre l'orrore, ingannata dalla curiosità.
La storia delle dittature è disseminata di cadaveri, esibiti dai vincitori come fa il gatto con la preda sgozzata e regalata al padrone, corpi maciullati e scherniti, appesi o fatti rotolare nella polvere, ricoperti di insulti e di sputi. Mussolini a piazzale Loreto e, in tempi più recenti, il raìs di Baghdad, Saddam Hussein, sono l'esempio dell'ostentazione di uomini-fantoccio, fatti muovere sulla scena da un pubblico impietoso alla stregua di poveri burattini da teatro, svuotati dell'anima e ridotti a pura effigie. Se l'ostensione non ha luogo, come nel caso di Osama Bin Laden, si incomincia a dubitare che sia una morte vera, vista l'assenza di tutto l'apparato di urli, sangue che cola, persone in fuga, spari ravvicinati, del pulp cronachistico di cui i network mondiali si nutrono avidamente, preda di inguaribili vermi solitari.
Dalla sua nascita, l'uomo non si è mai affrancato dal mettere in scena lo spettacolo della morte, con i migliori effetti speciali oggi amplificati da una tecnologia che evolve continuamente, al contrario della nostra parte animale, che a quelle lontane origini si è arrestata. Così il volto sfigurato di Gheddafi diventa la parte culminante del rito, il monologo del prim'attore, in questo caso i rivoltosi, e il suo corpo, spogliato degli orpelli del potere, ritorna vulnerabile e umano. Un nemico come un altro, da uccidere senza che il pensiero abbia il tempo di alimentare il dubbio.
Mario Chiodetti  

© RIPRODUZIONE RISERVATA