Congresso del Pd
Una scelta epocale

Parlare di congressi di partito ha sempre significato evocare scontri di idee, selezioni di gruppi dirigenti, verifiche di ambizioni personali, ma soprattutto - e inesorabilmente - calcoli di tessere. Queste non si pesano, semplicemente si contano. Evidente che, alla fin fine, è sul tesseramento che si è sempre decisa la battaglia e che i maggiorenti del partito hanno sempre fatto, di tutto per accaparrarsi (con mezzi legittimi e meno) il maggior numero possibile di tessere. Tutto ciò – s’intende - è valso per i canonici congressi di partito, merce ormai rara in tempi di personalizzazione delle leadership e di pratica delle convention, assise queste ben più addomesticabili di convocazioni democratiche degli iscritti.

L’eccezione è il Pd, l’unico partito che per il momento continua a celebrare un congresso, anche se compromettendone il ruolo con la convocazione successiva delle primarie. Lo fa un po’ per rispetto di una tradizione che risale al Pc, un po’ perché intende marcare la propria diversità rispetto agli altri partiti ormai con un impronta apertamente personalistica. Vanto di una vita interna democratica che nel concreto della prassi fa un po’ acqua da tutte le parti. Anzitutto, perché il Pd non è più il Pci e non può disporre dell’aurea regola del centralismo democratico che consentiva alla base di partecipare e lasciava al vertice (senza contestazione alcuna) di decidere. In secondo luogo, perché oggi in gioco non c’è un fisiologico ricambio dei dirigenti secondo i canoni di un collaudato cursus honorum, bensì un’alternativa storica sia di linea che di personale politico e persino di identità.

I candidati alla segreteria sono quattro (Renzi, Cuperlo, Civati, Pittella) ma non è un mistero che si tratta di una lotta del primo contro tutti gli altri e che una sua eventuale vittoria segnerebbe una rottura di continuità senza precedenti nella vita del maggiore partito della sinistra. Il giovane sindaco di Firenze ha gridato ai quattro venti che rottamerebbe la nomenklatura e rivolterebbe come un calzino la macchina del partito.

Non è un caso che il Pd abbia deciso di far seguire alla consultazione degli iscritti la convocazione degli elettori. Un ibrido che non promette nulla di buono se i risultati del primo voto smentisse il secondo. Iscritti ed elettori, con Renzi in campo, non sono sovrapponibili e mai come in questo momento sono portatori di due idee di partito alternative. Difficile con questi ingredienti fare la maionese senza rischiare di farla impazzire. Dopo tutto, si tratta di tentare una contaminazione tra vecchio e nuovo, tra nostalgia del “partito giraffa” che si illudeva di guardare dall’alto il movimento della storia e di guidare il suo popolo verso l’immancabile esito del socialismo e il progetto del “partito segugio” che, grazie al suo fiuto, sa individuare la traccia lasciata dall’elettore e segue la direzione utile a catturare la preda.

Non stupisce che Cuperlo, l’interprete più fedele della tradizione, punti al consenso degli iscritti e Renzi, l’apostolo del nuovo, faccia affidamento sugli elettori. La drammaticità della scelta da compiere rende ragione dei sussulti, degli scontri, persino dei brogli emersi nella consultazione degli iscritti; beghe e pasticci che minacciano, peraltro, di sporcare l’immagine di forza autenticamente democratica del Pd.

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