Il figlio pensa al padre
quando rimane solo

In una pagina terribile de “Il male oscuro”, uno dei più affascinanti romanzi psicanalitici ispirati dalla lunga, eterna lotta con il padre, Giuseppe Berto ricorda il giorno in cui vide il suo di padre steso nella sala operatoria con “il tumore esteriorizzato là sulla pancia, sempre avevo pensato che un cancro doveva essere qualcosa di schifoso ma com’era schifoso in realtà certo niente avrebbe potuto farmelo pensare, grosso e schifoso e sanguinolento, come le budella di un cane morto messe sopra la pancia di mio padre e veniva da dire, Dio mio quant’è brutto questo tipo di morte, possibile che non ce ne sia uno migliore, un tipo che si addica a un uomo probo e giusto”. E quell’uomo in quel momento stava lì “giallo in volto e nel cranio, e rantolava con la bocca cascante, aveva un respiro affannoso e rantoloso e pieno di dolore, a sentirlo veniva da non credere che non provasse dolore”. E lui, questo il punto, in quell’istante non pensava a suo padre, perché “dentro di me pensavo soprattutto a me stesso, se anche a me toccherà morire in modo tanto crudele”.

C’è sempre qualcosa di indecente nel rapporto che lega i padri ai figli, soprattutto quando i primi non ci sono più. E viene ancora più facile, più spontaneo pensarlo quando si avvicinano i giorni che la cristianità dedica proprio al Padre e al Figlio e che sono così duri per chi ormai i genitori li ha persi. Il figlio pensa al padre, ma forse pensa soprattutto a se stesso, perché la diga, la barriera che lo proteggeva dal tempo e dalle sue fredde ali, quella costituita dai nonni prima e da mamma e papà dopo, non c’è più. L’aria in faccia adesso la prende lui, ben conscio, per la prima volta nella sua vita, che la prossima curva, presto o tardi che sia, sarà la sua. Quanto tempo resta – adesso – al figlio? Ecco la vera domanda. E uno, proprio per questo e proprio nel momento del distacco, si illude che questa irrimediabile lacerazione porti temperanza, consiglio e insegnamento. Il dolore, se non ti uccide, ti rende migliore. Non è così che si dice?

E invece niente. Passati i giorni della sospensione, quelli in cui tutto sembra dover precipitare verso forme nuove e imprevedibili, la vita torna a urgere e a scalpitare. Uno pensa anche che la perdita, la coscienza, la cognizione della perdita, aiuti a fare i conti definitivi con se stesso e a farlo diventare una persona almeno un poco più bella. Illuso. Gli uomini non riescono a star fuori dalla loro condizione di natura per troppo tempo e finiscono inesorabilmente con il gettarsi di nuovo nel tritacarne. È la loro entelechia. Certo, sarebbe magnifico, smesso il lutto, svegliarsi più onesti e corretti, più probi e generosi e solidali, più saggi, più coraggiosi forse, dotati di uno sguardo più sobrio e universale. Ma non è così. Tu rimani tu, quello che sei, quello che sei sempre stato e che sempre sarai. La rana e lo scorpione. Solo con la mente più affollata di ricordi anche dolci, di vuoti non riempiti, di rancori, di livori, di attimi fuggenti mai colti fino in fondo e già pronto a reinterpretare la solita parte in commedia, a casa e in ufficio, il consueto teatrino fariseo di grandi salamelecchi e di piccole vendette. Tutto come prima, come se nulla fosse accaduto.

E, sempre in quei giorni, uno si illude pure che il clamore dell’evento possa aver mutato le dinamiche delle cose che accadono. Si immagina che esista un punto di non ritorno e che da lì in poi l’universo intero sia destinato a cambiare. Ridicolo. Letteratura da stazione, retorica per sciampiste. La tua tragedia non è la tragedia del mondo. La tua tragedia è solo la tua tragedia, uguale a migliaia e milioni di altre, né migliore né peggiore, né più nobile né più plebea e il tuo dolore non possiede le stimmate della santità negate a tutti gli altri. Lo senti più forte solo e soltanto perché riguarda te. Gli uomini, per quanto puri possano essere, si interessano veramente alle cose solo quando queste li colpiscono di persona. Altrimenti, passato il momento del cordoglio e della partecipazione, la vita continua a fluire instancabile e inesorabile già pochi secondi dopo e a pochi metri di distanza dal cosiddetto “grande evento” che nel tuo patetico delirio di onnipotenza credi catalizzi ogni attenzione. La vita se ne frega di te, del tuo lutto e dei tuoi tormenti. Ma non solo a Bogotà o a Pechino, già dietro la porta del vicino di casa: c’è un bambino che piange, tre ragazzi che giocano, due adulti che non si parlano, cieli vuoti, lune indifferenti, pulsioni, umori, odori, solitudini popolate da anime tormentate e da demoni, rari sprazzi d’amore. E questo è quanto.

E allora che resta? Un grande vuoto, un vago senso di dolore, un’inesausta speranza di una storia che non finisca e di un creatore che dia senso a tutta questa messinscena. E poi, per tutti i figli, ma soprattutto per i figli maschi che ricordano le ore dell’infanzia con il padre-eroe prima che iniziasse la lunga stagione arida dei mugugni e dei silenzi, la commovente, inarrivabile pedagogia contenuta nell’ultima pagina di “Guerra e pace”. Nella camera di Nikòlen’ka Bolkonskij ardeva come sempre una lampada da notte - il ragazzo aveva paura del buio - e lui, “svegliatosi allora allora, coperto d’un sudore freddo, con gli occhi spalancati, era seduto sul letto e guardava innanzi a sé”. Un sogno tremendo lo aveva destato: suo padre lo aveva visitato “e non aveva figura né forma, ma c’era, e vedendolo Nikòlen’ka aveva sentito tutta la debolezza dell’amore: si era sentito senza forza, senza ossa, come fluido. Il padre lo carezzava e lo compativa”. Poi lo spavento l’aveva preso e s’era svegliato: “Mio padre, pensava, mio padre, mio padre è stato con me e mi ha carezzato… Qualunque cosa dica, io la farò… Tutti lo sapranno, tutti mi ameranno, tutti mi ammireranno”. E a un tratto Nikòlen’ka sentì i singhiozzi che gli riempivano il petto e si mise a piangere. “Mio padre! Mio padre! Sì, farò cose delle quali anche lui sarà contento…”.

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