Riforme e potere
La parabola di Renzi

Tutti noi avevamo nella compagnia un bulletto gradasso pieno di sé di cui fingevamo di essere amici e seguaci perché era carismatico, ostentava un talento invidiabile e magari attirava le ragazze (o i ragazzi se era una “bulletta”). In realtà, nel nostro intimo, lo detestavamo e quando capitava di vederlo in difficoltà ci compiacevamo perché ci appariva un atto di giustizia. Matteo Renzi, per la politica italiana non è stato solo questo ma anche questo. Simpatico non è come tutti i primi della classe, anche quelli, rari, che ti facevano copiare i compiti. Ma aveva e ha carisma e aveva (o forse non più) idee.

E rappresentava il nuovo, il cambiamento, che in un paese in cui le cose non vanno mai bene e il nuovismo e il desiderio di cambiare sono diventati turbe ossessivo compulsive, è sempre il miglior atout. Quando poi ha elargito gli 80 euro anche tanti tra coloro che non li hanno ricevuti si sono accodati perché hai visto mai che uno così non cacci qualcosa anche noi. Ecco spiegato l’irrepetibile 40% ottenuto dal Pd alle Europee di quattro anni fa. Un consenso dopato, lo sapevano tutti, che è scemato appena finito l’effetto perché di “aiutini” per restare in testa al gruppone dei partiti non ce n’erano più. E già questo avrebbe dovuto far riflettere. C’era infatti bisogno di gonfiare il consenso del Pd che, se avesse rispecchiato la sua ragione sociale, quella cioè di sommare il riformismo di sinistra con quello cattolico avrebbe dovuto raggiungere quella quota di consensi senza fatica? Ma il Pd non è mai stato quello che sarebbe dovuto essere. E, bisogna dargliene atto, lo aveva compreso anche Renzi che, non a caso, aveva dato il via a un tentativo riformista che gli era valso il consenso di quel blocco sociale che da anni attende un segnale forte e concreto di cambiamento di una politica che, anche nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, aveva mantenuto quel retrogusto di stantio che neppure la lunga stagione berlusconiana con il riformismo delle apparenze e dei contratti firmati da Vespa e rimasti carta straccia era riuscito a eliminare.

Invece il riformismo di Renzi era concreto, attuato a colpi di leggi come il Jobs Act, gli interventi sulla pubblica amministrazione (magari un po’ meno incisivi), sul diritto di famiglia e soprattutto sulla Costituzione repubblicana con l’epocale passaggio dal sistema bicamerale a quello monocamerale e i suoi annessi e connessi non da poco che andavano ben oltre la simbolica abolizione del Cnel. Tutto bene, grandi attese e grandi speranze per un futuro davvero diverso della politica e del Paese. Almeno fino a quel fatal 4 dicembre 2016 (un numero, il 4, che non porta molto bene al Matteo fiorentino come conferma il voto di domenica scorsa, 4 marzo), quando buona parte degli italiani decise di fare un po’ come quello che sacrifica gli attributi per far dispetto alla moglie e conclusero che: va bene tutto, ma il bulletto della compagnia aveva stancato, che si credeva di essere, uno che le sa fare solo lui le cose, ma per favore? E la scelta degli italiani spazzò via anche il Sansone riformista assieme al vanaglorioso filisteo. Da quel giorno Renzi, che sembrava infallibile, non ne ha più imbroccata una. Certo, ha lasciato palazzo Chigi, ma solo per metterci l’opaco (in apparenza) Gentiloni a tenergli il posto in caldo. Ma non ha mollato il partito favorendo il deflusso di coloro che la pensavano in maniera diversa da lui. Di riformismo non è rimasta più l’ombra. La musica era finita e assieme ai nemici tanti amici se ne sono andati. Da allora è stato potere, solo potere, sempre meno potere. Fino alla livida sortita del lunedì più triste della storia del Pd che pure il disco “Buongiorno tristezza” lo ha suonato spesso. “Non gioco più me ne vado”, ha detto Renzi. “Ma intanto non faccio neppure giocare voi, che pensate di trastullarvi al governo con quei Cinque Stelle che me ne hanno cacciate di ogni in campagna elettorale”. Se l’obiettivo è lanciare un’Opa macroniana sulla vulnerabile Forza Italia ci può stare, ma che ci azzecca con il Pd?

“Io non so più io, ma voi restate un...”, ha sibilato un Marchese del Grillo privo dell’agra ironia di Alberto Sordi. E dietro a Matteo a qualcuno è sembrato di intravedere una grande ombra, quella di un altro riformista che una volta preso atto che in questo benedetto paese le riforme le vogliono tutti a patto che non si facciano, si era arroccato al potere e aveva finito per distruggere se stesso, la sua storia politica e il suo partito che aveva più di 100 anni. Quell’ombra si chiamava Bettino Craxi. Al netto delle tangenti sembra proprio un Deja vu.

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