La vita in uno smartphone
«Vi spiego come uscire
dal rischio della dipendenza»

Alessandro Trivilini, ingegnere e docente alla Supsi, ha messo a punto una dieta per uscire dalla schiavitù digitale. «Notifiche, batteria, fotocamera, geolocalizzazione: come ritrovarsi senza essere schiacciati dalla tecnologia»

Dall’incrocio di esperienze diverse nasce un metodo, su base scientifica ma spiegato a tutti, per comprendere la relazione con un nuovo “soggetto” dell’universo dell’umano: lo smartphone. Sempre meno macchina sempre più persona. Per aumentare il tasso di consapevolezza del suo uso e abbassare quello della dipendenza, un inedito metodo è proposto da Alessandro Trivilini, ingegnere, che dal confluire di competenze poliedriche ha tratto una “dieta” per l’uso e non l’abuso dello smartphone e delle sue imprevedibili evoluzioni.

Come nasce l’idea di una dieta digitale?

Da un’esperienza. A ottobre ero a Mosca per una conferenza su intelligenza artificiale e big data. Mi sono trovato in un Paese dove l’uso dello smartphone è limitato, non mi arrivavano notifiche, non potevo accedere ai social. Mi sono reso conto di aver acquisito una serie di automatismi e gestualità legati allo smartphone e tutto ciò mi dava un senso di stress. Intanto attorno a me le altre persone erano connesse. Spinto fuori dal mondo digitale mi sono trovato nella condizione di poterlo osservare, che poi è l’approccio che ho nel mio lavoro. Come spettatore involontario ho visto con evidenza che c’erano gli elementi per indagare una dipendenza.

In base a quali dati si può fare un’analisi su uso e abuso di smartphone?

Le statistiche di Eurostat 2018 dicono che il 91% delle persone in Europa possiede uno smartphone con interazioni. Il 60% lo controlla appena sveglie, l’80% legge le email di lavoro durante la notte, l’utente medio tocca lo smartphone almeno mille volte al giorno. Questa era la realtà da cui partire.

Dato il quadro, perché si può parlare di dipendenza?

Ho indagato quali sono le motivazioni che ci portano a prendere, guardare, toccare, attivare continuamente lo smartphone e per farlo sono ricorso ai sistemi motivazionali interpersonali individuati da Giovanni Liotti, psichiatra e neuro scienziato italiano che li propose in campo clinico, ma utili anche per valutare il grado di empatia e di agio emozionale tra una persona durante gli interrogatori, come avevo dimostrato nella mia tesi di dottorato. Nella nuova ricerca sulla relazione persone e smartphone ho valutato che due di questi parametri sono fondamentali: il sistema dell’attaccamento e il sistema di accudimento.

Cosa sono i sistemi motivazionali interpersonali e come li si può applicare alla relazione con uno smartphone?

Gli “SMI” regolano la relazione tra il tuo sé e quello di un altro essere umano. A una delle due persone ho sostituito lo smartphone e verificato che la dinamica fosse simile. In effetti c’è relazione tra i due perché lo sviluppo delle applicazioni moderne oggi è sempre più orientato allo sfruttamento dei nostri sensori cognitivi, ovvero emozioni, memoria, attenzione, linguaggio. Inoltre le applicazioni sono costruite in modo molto pervasivo, la loro complessità tecnica è stata messa dietro le quinte e si presentano molto semplici.

L’intuitiva usabilità degli smartphone è tra gli elementi che avvicina la relazione con lo strumento a quella tra due esseri umani?

Sì, è pervasiva nei confronti dei nostri sistemi cognitivi. Le notifiche catturano la nostra attenzione, la geolocalizzazione attiva degli automi intelligenti che oggi sono in Google Home, in Siri o in Alexa con cui noi interagiamo con la nostra voce e i gesti “accendi la radio, spegni il fornello”… La geolocalizzazione crea dipendenza perché da lì passa la delega, la credibilità, la fiducia, l’autorevolezza. Spegnerla è un modo per verificare se, tornando alla preistoria, abbiamo ancora allenati un po’ di sensori.

Lo smartphone potrebbe essere solo un ponte con un altro essere umano per facilitare una relazione che rimane tra individui?

Il risultato dell’equazione di fatto è come se avessi di fronte sempre un essere umano, anzi un individuo molto più evoluto perché grazie all’intelligenza artificiale attiviamo relazioni dirette con delle macchine. Non solo oggi parlano come noi, ma la maturità degli algoritmi di analisi computazionale del linguaggio naturale è così evoluta che si prevede una ulteriore evoluzione con la internet degli oggetti.

In un crescendo di dipendenza come è possibile restare consapevoli del lato “umano” della realtà senza rinunciare alla tecnologia?

Lavorando su noi stessi. A partire da due dei sistemi motivazionali interpersonali: il sistema dell’attaccamento e dell’accudimento e facendo delle prove, ognuno su di sé, sulle proprie emozioni, uniche. Chiedendosi come mi sento silenziando le notifiche, oppure cosa provo se non sono geolocalizzato. Posso avvertire un senso di ansia, di isolamento o di abbandono ed è quello che succede quando si entra in galleria, si insinua paura, ansia quindi schiaccio l’acceleratore, esco dalla galleria e vedo che riprende il segnale, arrivano le notifiche, mi sento sollevato. Ma attenzione è un benessere passeggero.

Possiamo considerarla una dimostrazione di dipendenza?

Certo, subentra l’accudimento verso la notifica perché mi fa star bene, l’ansia scivola via, ma se rientro in galleria torno in stato di attaccamento. Grazie a questo approccio, che applica gli SMI, si giustificano le reazioni. Così ho disegnato un percorso in sette tappe, come i giorni della settimana, con elementi in ordine di importanza. La gestione di questi elementi consente di misurare le motivazioni che possono generare dipendenza da smartphone. Gli elementi che ho individuato sono: notifiche, batterie, fotocamera perché poter postare le foto in tempo reale a volte ha un’urgenza inderogabile, la geolocalizzazione, la custodia, che provoca quasi una relazione fisica, c’è chi la vuole con serigrafie e foto della fidanzata, del figlio, della moto, di un simbolo rappresentativo che lo emoziona. La cover accogliente suscita senso di benessere. Cambiare la cover dà la misura di una dipendenza. Altri elementi sono la posta e i canali social che secondo la mia “dieta” si possono certamente usare, ma postando ogni due ore #detox.Se devo postare continuamente qualcosa e se trattenendomi vado in stato di ansia questo è un segnale di dipendenza.

Può esserci dipendenza, ma si può dire che sia una patologia?

Non arrivo a queste conclusioni, però propongo un approccio per misurare le motivazioni che per la prima volta unisce un metodo scientifico mutuato dalla clinica con l’analisi dialogica degli interrogatori forensi, insieme alla conoscenza delle tecnologie, di come funzionano e della loro crescente capacità pervasiva.

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