Genoa-Como: «Ma ormai è un calcio senz’anima»

Da un anno il patron ha lasciato il mondo del pallone: «Ho parecchi dubbi sulle proprietà straniere. Sono ricche e sane, ma per loro fare business in Italia è complicato perché non calcolano la passione»

Questa è la sua partita: Genoa-Como. La partita di Enrico Preziosi: cinque anni (più due) qui, diciotto là. Ora che è uscito dal calcio (da un anno circa), Preziosi vede le cose pallonare con più distacco. Sempre appassionato, ma più tranquillo. Siamo andati a trovarlo nella sede della Giochi Preziosi a Cogliate per due palleggi metaforici. Su Como e sul Genoa. Il suo ufficio è rimasto uguale ai tempi del Como, con il lungo tavolone di legno su cui gestisce gli affari come fosse una plancia di comando. E c’è anche una tenera foto di lui con sua figlia piccolina, con la maglia azzurra Temporary della stagione in serie A.

Preziosi, domenica c’è Genoa-Como. La sua partita.

Già. Non mi chieda per chi tifo. Scontato: Genoa. Diciotto anni non si cancellano.

I cinque di Como, invece, sì?

Avete presente quando qualcuno ti fa del male, e l’unica maniera per dimenticare è cancellare? Ecco, Como mi fa quell’effetto. Abito a Lugano, e se devo attraversarla di passaggio, mi prende un sentimenti di disagio.

Anche i tifosi, quando pensano a lei...

Le cose non sono mai raccontate bene. Mi spiace. Se la gente a Saronno, a Como e a Genova ha finito per insultarmi, o screditarmi, significa che qualche errore l’ho commesso anche io. Non sono soddisfatto di quanto ho fatto, perché alla fine ho perso. Se questo è il ricordo che si ha di me, ho perso. Però...

Però?

A Saronno mi hanno addebitato un fallimento arrivato due anni dopo dalla mia partenza. E a Como... beh a Como mi hanno tirato un bel tranello. Con tutti i soldi che ci ho messo. Ma non ce l’ho con nessuno, voglio dimenticare. Anche se avrei delle cose da dire. Anzi: le ho scritte in un libro, ma mi consigliano di non pubblicarlo...

Genoa-Como, dunque.

Il Genoa ha una squadra che mi sembra possa andare in A. E un allenatore bravo, che però per me deve ancora adattarsi al calcio italiano.

Dica la verità, dopo 18 anni lei se ne va e il Genoa va in B: sotto sotto avrà sorriso...

E invece no. Mi è spiaciuto. Anche perché era facile concludere che avevo messo il Genoa in mani sbagliate. E non era vero. Ma sono stati fatti errori importanti, come prendere Schevchenko. Urlavo al telefono con i proprietari, chiedevo “ma cosa state facendo?”. Va beh, torneranno su.

E il Como?

Seguo meno. So poche cose. Che la società che è arrivata è sana, è seria e ha disponibilità economica. Un buon punto di partenza. Ma il calcio è una brutta bestia: i soldi sono una cosa importante, ma poi bisogna “gestire”. E non è facile.

Il Genoa e il Como hanno proprietà straniere.

Appunto. Difficile gestire a distanza. Il calcio conserva regole antiche che sono sempre attuali. La proprietà deve essere presente, guardare i giocatori negli occhi. E i giocatori, quando annusano la presenza del padrone, corrono di più. Da lontano è difficile. Molto più difficile.

Le manca il calcio?

No. Sono sincero. In questo anno mi sono disintossicato, sono tornato a fare le cose che so fare bene, a dedicarmi alla azienda e alla famiglia con più serenità, meno frenesia. Anche le partite le guardo con più distacco: da una parte me le godo di più, dall’altra c’è meno adrenalina.

Voglia di tornare?

Guardi (e questo vale anche per Genoa e Como): il mio calcio è finito. Questo è un calcio senz’anima, tutto business. Le proprietà straniere non vengono per passione, ma per fare affari. Il tempo dei padri padroni-tifosi, come ero io, è finito. Anche se posso farle una previsione.

Dica.

Tra qualche anno le proprietà straniere torneranno da dove sono venute.

E come mai?

Chi viene da lontano calcola di fare business come nell’entertainment. Profitti sicuri. Ma non calcolano che qui è diverso. Qui la gente non va allo stadio per divertirsi, di divertirsi non gliene frega un fico secco. Qui la gente va allo stadio per vincere, per andare in ufficio e a sua volta vincere le sfide... di corridoio. Il controllo si scontra con questa irregolarità impazzita che si chiama passione. E le proprietà straniere non la capiscono, non la gestiscono.

I suoi primi anni di Como però, almeno quelli furono belli.

Il primo no, dai. Salvezza a Fiorenzuola... Fu bello sino alla promozione in B. Poi no. Se alla promozione in B feci i fuochi d’artificio e a quella in A no, qualcosa vorrà dire.

Era già entrato in collisione con la piazza.

I tifosi mi amavano, all’inizio, anche perché io sono uno che non si nasconde, empatizza. Mica sono come quelli che gestiscono nell’ombra. Poi si cominciò a parlare di stadio, e addio...

Appunto, a Como sembra di essere tornati ai suoi tempi...

Como è una città che non ha bisogno del calcio. Il problema è quello. I mie discorsi sullo stadio erano come un sasso che cadeva nell’acqua: due cerchietti e poi più nulla. Non so se è cambiato qualcosa, ma allora quale amministrazione si sarebbe imbarcata in un progetto che interessava così a pochi? E poi il Sinigaglia è di difficile gestione, in una posizione scomoda. La vedo dura.

I suoi allenatori preferiti?

Ce n’è uno sopra tutti: Gasperini. L’ho scoperto e poi, recentemente, talmente sponsorizzato, all’Atalanta che mi sento coautore del miracolo nerazzurro.

E i giocatori?

Thiago Motta l’ho scoperto io e Gasperini non voleva farlo giocare. E tanti altri. Non è vero che imponevo le formazioni, ma è vero che partecipavo alla conduzione tecnica perché mi piaceva parlare con gli allenatori.

Tornerà?

Chissà, magari per la mia terra. Ma non ho rimpianti. Rifarei tutto. Anche gli errori.

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