L’uomo dei sogni: «Società pronta, la città si prepari»

Parla Nicastro, ex presidente del Como: «Come ho trovato gli indonesiani? Vendendogli un mio progetto»

Al nono piano del suo nuovo ufficio milanese, Massimo Nicastro sorride divertito. «Visto cosa vi ho trovato?». Già, lui è l’ex presidente del Como (due stagioni dopo il caso Essien) che vive a Miami e che per un anno disse di avere l’idea, il progetto di vendere il pacchetto societario a una realtà imprenditoriale importante, con una visione allargata, legata al brand cittadino. Non gli avevamo dato granché retta. Pareva un visionario. Ma i visionari a volte hanno ragione. E così, quattro anni dopo aver trovato la famiglia Hartono, è tornato allo stadio Sinigaglia per godersi lo spettacolo. Così lo abbiamo raggiunto per farci spiegare i dettagli di quella trattativa. L’inizio di tutto.

Buongiorno Nicastro. Visto cosa ha combinato?

Sono stato allo stadio, ho visto già qualcosa di bello. Mi sono divertito. Peccato la vittoria mancata. Ma si respira un bel clima. Ed è solo l’inizio.

Lei per molto tempo aveva in mente di vendere a una realtà di questo tipo. Ma era un sogno o un progetto?

Un progetto. Io abito a Miami e, per le mie attività, vengo a contatto con realtà imprenditoriali importanti. Sapevo due cose: 1. Il calcio italiano è sempre più preda di società straniere che non comprano solo la squadra ma anche tutto quello che c’è intorno, legato all’appeal del luogo. Pallotta o Friedkin non hanno compratolo solo la Roma, Commisso non ha comprato solo la Fiorentina, ma tutto l’indotto. E lo stesso vale per realtà meno grandi, come Parma o Padova. 2. Como era in cima alla lista dei posti cool, e aveva molte più chance di avere persone interessate.

Noi non ci credevamo.

Per forza. In Italia c’è più una visione legata al risultato, al campo, alla tecnica e alla tradizione sportiva. Era la differenza di mentalità che c’era tra me e Felleca. Io pensavo a un certo Como, allo stadio, a una società strutturata, a un impianto moderno e multi funzionale. Lui pensava solo ai gol, alla promozione. Non che uno avesse ragione o torto. Ma io vengo dagli Usa, e lì è la normalità.

Dunque? Torniamo alla trattativa.

Ho incrociato una decina di soggetti interessati. Uno era tedesco, gli altri mi pare tutti americani.

Ma non funzionò.

Si arenavano tutti sulla questione stadio. Il fatto di non avere certezze sull’impianto frenava ogni cosa.

Perché allora gli indonesiani hanno accettato?

Perché gli americani vogliono avere tutto sotto controllo, tutto programmato. Gli indonesiani sotto questo aspetto sono più simili a noi latini, se c’è un margine di incertezza, pensano di poterlo gestire.

Ok aver trovato la famiglia Hartono, ma l’impressione è che sarà stato importante anche come lei ha venduto il pacchetto.

A un certo punto io e Felleca non siamo statioì più d’accordo su come condurre la società. Ricordate la storia del ripescaggio? Io non ero d’accordo perché non avevamo una società strutturata, mentre lui avrebbe sfruttato persino un ripescaggio in A. Insomma, quando fummo d’accordo per vendere, qui si avvicinarono un sacco di... - come si dice a Milano? - “barlafusi”. Il Como non sarebbe andato lontano, con la logica della cessione di una squadra di D. serviva qualcosa di diverso. Ma io sapevo cosa.

Cosa?

Ho parlato di Como nella sua interezza. Ho venduto una specie di... Via della Spiga del calcio. Tanto per rendere l’idea. Il calcio incastonato in un panorama di bellezza, che poteva fare da volano a un sacco di altre cose. Una avventura speciale di cui avrebbe parlato tutto il mondo.

E gli Hartono come li ha incrociati?

Tramite conoscenze comuni. Ho incontrato i loro emissari a Villa d’Este, una lunga analisi, finché un bel giorno venne Mirwan Suwarso, a vedere tutto e chiudemmo. Rimase incantato dal luogo.

Lei lo sente ancora adesso?

Certo, anche di frequente.

E cosa ci può dire?

Posso dire alla città di Como di assecondarli, di sedersi a un tavolo e costruire insieme il futuro. Da osservatore esterno dico: la sensazione è di vedere due entità, la società e la città, che recitano il ruolo di due controparti commerciali in una trattativa. Invece è sbagliato. Di fronte a una società di questo tipo, bisognerebbe fare squadra a livello di empatia. E quella sensazione si percepisce.

Ma lei parla così perché glielo ha detto Suwarso o sono sue deduzioni?

Parlo perché ci sono passato, perché ho una certa esperienza, perché conosco le realtà in campo. Io credo che questo treno nella vita passi una volta. Como non può farselo scappare. Non ci sono avvisaglie, tranquillizzo subito i tifosi, la proprietà è entusiasta di questa avventura. Ma i matrimoni durano se si è pienamente ed entusiasticamente corrisposti. Un po’ più di entusiasmo e di voglia di condividere il progetto.

Dove arriveranno?

Io consiglio di allacciarvi le cinture. Che tra un po’ si vola. E ho detto tutto.

Vogliono andare in serie A?

Per me, ma è una mia supposizione, già l’anno prossimo schiacceranno sull’acceleratore.

Tornare allo stadio che impressione le ha fatto?

Mi ha riportato a una mia esperienza indimenticabile.

Ma perché era entrato nel calcio?

Mi aveva contattato un amico per chiedermi se potevo aiutare un suo amico (Renzi) nella copertura finanziaria di un progetto per rilevare il Como all’asta. I soldi li ho messi io in quella avventura, eh...

I ricordi più belli?

La prima partita, che per i tifosi del Como era vissuta come la rinascita dopo lo choc Essien; la vittoria sul Mantova; la promozione in C, con io e Gandler che saltavamo in mezzo al campo. Ma posso dire?

Prego.

Anche il giorno della mancata promozione è un momento indimenticabile, Perché tra lacrime e rabbia, mi ha insegnato che emozioni può smuovere il calcio.

Vero che ha una società di calcio?

Il Miami Beach. Mi diverto. A un certo punto stavo comprando il Rimini, ma poi il presidente cambiò idea. Adesso sono in affari nel campo dei procuratori di calciatori. Insomma , il calcio è sempre presente nella mia vita.

Ancora tifoso del Como?

E come no? Vedo le partite alle 8 di mattina, in tv. Un orario perfetto. Anzi, adesso vi dico una cosa curiosa.

Dica.

Ho chiamato una delle mie società “Banda Como”, dal nome di uno dei gruppi della curva che c’erano ai miei tempi. C’è anche un ragazzo che è venuto a lavorare con me a Miami.

I tifosi del Como le devono un grazie?

Mah, forse è esagerato. Sono contento che la mia visione delle cose, che sembrava lontana anni luce, alla fine si è rivelata azzeccata. Adesso però sta alla città non farsi sfuggire questa bella e clamorosa opportunità.

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