Copeland rilegge il Giro d’Italia
«Quasi tutto bello, ci credevo»

Manager del Team Bike Exchange: «Yates ci ha provato, lo ha fregato il freddo sul Giau. Bernal grande»

Brent Copeland, questo Giro, un po’ lo ha perso e un po’ lo ha vinto. Lo ha perso con il capitano della sua Bike Exchange, squadra australiana di cui è General Manager, Simon Yates, unico che ha provato a sfidare la maglia rosa Bernal. Un po’ lo ha vinto, perché il manager sudafricano, comasco da vent’anni, mai come in questa edizione è stato esposto mediaticamente, ospite fisso al Processo alla Tappa sulla Rai, costretto a forzare la sua proverbiale riservatezza britannica. Dietro la quale, però, si cela una persona deliziosa, amabile, allegra. Tornato a Garzola, dalla sua Gabriela (artista comasca) e dalla figlioletta, è venuto al giornale per raccontarci il suo Giro.

Allora Copeland: quanto ci ha creduto?

A un certo punto, molto. O quanto meno ci siamo detti che dovevamo provarci, che era giusto avere un atteggiamento coraggioso. Per il pubblico, per la gente, per il ciclismo.

Quando?

Bernal ha fatto un grande Giro. Ma in due occasioni è andato un po’ in crisi e guarda caso è stato nelle due occasioni in cui è scattato Simon. Ci siamo detti che valeva la pena provarci. Dopo Sega di Ala, quando Simon è arrivato terzo, ma Bernal si è staccato, abbiamo deciso di attaccare. All’Alpe di Mera, la tappa vinta da Simon, ci abbiamo provato, ma la sera il distacco era troppo grande, considerato che c’era la cronometro ancora da fare.

Dove l’avete perso?

Ci sono stati due episodi che ci hanno giocato contro. La caduta della tappa di Sega di Ala, che ha tolto due nostri uomini a Simon. E la tappa di Cortina, quella accorciata, senza Pordoi, in cui sul Giau ha patito il freddo. Lui non ha mai avuto problemi con il freddo, ma quest’anno sì. Non so se per il fatto che aveva perso peso. Ma sul Giau si è coperto molto, e non era agile abbastanza. La stessa cosa è successa a Madesimo. Sullo Spluga in teoria avremmo dovuto attaccare, ma faceva molto freddo e in discesa non abbiamo rischiato di buttare via tutto. Poi credo che Simon avesse nelle gambe la vittoria del giorno prima, e negli ultimi 2 km. dell’Alpe di Motta ha sofferto.

Che tipo è Simon Yates? Sembra uno schivo, uno che non asseconda il bisogno di visibilità mediatica.

Un po’ è così. È molto riservato, silenzioso, non è certo uno che accalappia tifosi per atteggiamenti o frasi sopra le righe. In questo ciclismo show, sono cose che magari un po’ paghi, ma di contro è una bravissima persona, un professionista serissimo, molto umile. Uno che non rompe mai le scatole, si adatta, testa bassa e pedalare. Facile lavorare con lui.

Come mai c’è il boom dei corridori inglesi?

Hanno lavorato bene con la pista, all’inizio, e poi hanno trasferito il sistema scientifico sui corridori su strada. Oggi ormai è tutto computerizzato, come in F1 o MotoGp. Si lavora sui numeri. C’è poco spazio per la fantasia e questo mi dispiace.

Anche quest’anno il Giro ha visto una tappa accorciata per il maltempo. Come l’anno scorso a Como, giù da Morbegno.

Situazioni per certi versi diverse, ma certo rimane un po’ l’amaro in bocca a chi piace il ciclismo epico. Io sono uno di quelli. Credo che il ciclismo debba il suo successo all’epica di certe imprese. Detto questo, la sicurezza prima di tutto, per carità. Ma ogni anno vedere accorciare tappe non fa bene.

È stato un bel Giro?

A me è piaciuto tanto. Mi è piaciuto il percorso e mi è piaciuto che non è stato scontato. Alla fine era ancora aperto e questo è l’importante. Fosse rimasto Landa in gara, sarebbe stato ancora più aperto.

La sorpresa è stata Caruso.

Io lo conosco bene, Damiano. L’ho portato io in Bahrein. Un bravissimo ragazzo che merita questo risultato. Quando ha perso il capitano è andato su con il suo passo senza alti e bassi. Una bella sorpresa.

Come è stato essere ogni sera in diretta tv?

Strano. Parlare dentro un telefono è strano. Non è naturale, forse sono venuto più serio di quello che sono. Ma l’importante era il messaggio da mandare: che ci avremmo provato, che volevamo fare spettacolo.

Com’è la vita alla Bike Exchange?

Mi trovo molto bene. Il titolare, l’imprenditore australiano Gerry Ryan, è un grande appassionato. Si lavora bene, c’è un bel misto di nazionalità nel gruppo lavoro, c’è un bel clima.

Sempre felice di essere a Como?

Como è casa mia, mi trovo meravigliosamente. Vorrei andare in bici più spesso, ci sono posti fantastici, ma con il lavoro è dura. Adesso abbiamo anche la squadra femminile che è un’altra bella avventura entusiasmante.

Però sull’ospitalità delle grandi corse deve imparare dalla Valtellina...

Ho visto un grande entusiasmo nella tappa di Madesimo. Più gente di quanta mi aspettassi. Molto bello. Ma poi abbiamo avuto il problema al rientro: un pulmann di una squadra si è incastrato in un tornante e abbiamo dovuto chiamare l’elicottero per far rientrare alcuni nostri uomini, noi siamo rimasti in coda sino alle 23.

Prossimo obiettivo?

Fare bene il Tour de France. Andiamo con tre punte come Yates, Chaves e Matthews. Non per la classifica generale, perché Simon si fermerà dopo due settimane per preparare le Olimpiadi, ma possiamo comunque lasciare il segno.

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