Confusero (apposta)
le ceneri dei morti
Doppia condanna

Furono 230 le salme che da Como furono mandate a Biella per la cremazione. Cinque anni ai due gestori dell’impianto ma ora la Procura vuole archiviare gli altri esposti

Dettagli irriferibili arrivano dal Tribunale di Biella, dove in questi giorni si è concluso il primo grado del processo intentato nei confronti di due fratelli - Marco e Alessandro Ravetti - accusati di avere inanellato una sfilza di orrende nefandezze nella conduzione del forno crematorio che gestivano e nel quale - grazie anche ai buoni servigi del Comune di Como, incapace di aggiustare quello di casa propria - confluirono anche le salme di circa 230 comaschi dirottate, nell’emergenza, fuori provincia.

Fare i conti è difficile: è certo che siano comunque decine le famiglie del nord Italia che si sono rivolte chi a un proprio avvocato di fiducia chi al Codacons, ente che da solo ha presentato un esposto che raccoglie le “voci” di almeno 450 tra coniugi, figli, nipoti e nipotini, tutti parenti che nella migliore delle ipotesi hanno sepolto o conservano sul camino un’urna con le ceneri di chissà chi.

Anche una bara bianca

Del resto questo c’è dietro la doppia condanna a 5 anni di carcere: 320 chili di cenere e ossa che l’anatomopatologa Cristina Cattaneo ha confermato essere umane, a suo tempo recuperati nei cassonetti dell’immondizia accanto al tempio crematorio, e con essi le immagini delle ossa frantumate a colpi di pala sotto l’occhio delle telecamere installate dagli investigatori, e delle bare infilate assieme nel forno per aumentare resa, produttività, ricavi, e poco importava che, com’è capitato, una bara fosse grande e una magari più piccola, e bianca, di un bambino, e che i resti contenuti nell’una si mischiassero ai resti dentro a quell’altra. Orribile.

Le voci dei familiari

Fuori dal tribunale, in attesa di conoscere l’esito del processo (in tempi di Covid le aule di giustizia restano interdette al pubblico), c’erano decine di parenti che indossavano magliette con i nomi dei loro morti e che hanno accolto la sentenza con soddisfazione.

La loro partita si gioca tutta il 5 novembre, quando sempre a Biella è in programma la maxi udienza in cui si discuterà l’opposizione che il Codacons ha avanzato alla richiesta di archiviazione formulata dalla Procura. Il pubblico ministero non vuole procedere sulle singole denunce, e non è - dice - questione di cattiva volontà. Il punto è che non c’è modo di ricostruire i percorsi delle salme, i loro destini, se non azzardando una fantascientifica campagna di mappatura del profilo genetico di ogni residuo d’osso, di ogni pulviscolo di cenere, per un “who’s who” cinerario che è tecnicamente impossibile.

Non che il Codacons la carta non l’abbia giocata: molte delle famiglie che hanno aderito a questa sorta di class action, hanno anche affidato ciascuna la propria urna a un laboratorio indicato dall’ex generale del Ris dei carabinieri Luciano Garofalo. Il laboratorio ha chiesto a ogni nucleo familiare 2.400 euro per completare la mappatura dei resti. Hanno pagato quasi tutti. Inutile chiedersi se ne valesse la pena. Niente è più insondabile del nostro rapporto con la morte.

© RIPRODUZIONE RISERVATA