Covid, dentro la rianimazione
Trecento pazienti in un anno

Viaggio nella terapia intensiva del Sant’Anna: tutto esaurito. Tra i ricoverati una donna incinta

«L’immagine più brutta di quest’anno? Gli occhi dei nostri pazienti che si chiudono, quando li addormentiamo. Poco dopo averli rassicurati che, quando li riapriranno, il peggio sarà passato e poco prima di intubarli». Nelle stanze della terapia intensiva, al piano meno uno del Sant’Anna, c’è soltanto un letto tenuto libero per i pazienti Covid. Tutti gli altri sono pieni. Paziente supini, proni, quasi tutti con gli occhi chiusi, il tubo dell’ossigeno che lavora al posto dei polmoni violentati dal maledetto virus.

Marta Bianchi è uno dei medici di turno, in questa mattinata di sole, dove appena un piano sopra queste stanze, nelle quali si lotta per allontanare il confine estremo, si gioca la partita della speranza: le vaccinazioni.

«Dobbiamo ammetterlo - commenta la giovane dottoressa della rianimazione - viviamo un misto di rabbia e frustrazione per la gestione in Italia dei vaccini. Un’amica che vive a Londra mi ha detto che in tutta la Gran Bretagna ci sono 17 morti Covid. Vuole dire che ogni giorno l’Italia regala almeno 450 vite al virus». E tutto perché la gestione delle coperture vaccinali è al momento fallimentare. A dispetto degli sforzi degli ospedali, che però già devono lottare su più fronti: l’ondata di pazienti in pronto soccorso, la lotta nei reparti per regalare scampoli d’ossigeno a chi è stato agguantato dal Covid, l’argine estremo della rianimazione per diminuire il più possibile i lutti.

Il virus e la gravidanza

Oltre la porta della terapia intensiva ci accompagna Paolo Varani, infermiere. È lui a mostrare le regole per vestirsi e, soprattutto, quelle da rispettare per la svestizione, per evitare che il virus ti tradisca quando pensi di averlo beffato: «Purtroppo tanti colleghi si sono contagiati proprio in questa fase». All’interno della “ria Covid” un’isola centrale funziona quasi come cabina di regia. Su un monitor una serie di numeri e di diagrammi mostrano i parametri vitali di ogni paziente. A volte suona un allarme, si accende una luce, c’è qualche avviso da controllare: «Qui suona un po’ tutto - spiega ancora la dottoressa Bianchi - Dal materasso antidecubito al respiratore».

Tra i pazienti attualmente ricoverati pochi sono svegli. Tra questi una giovane donna, incinta: «È la terza paziente gravida che abbiamo in cura per il Covid in terapia intensiva - spiega il primario, Andrea Lombardo - Siamo un hub di riferimento in regione per le pazienti in attesa positive al virus. Due siamo riuscite a curarle senza bisogno di intubarle, una terza abbiamo dovuto sedarla». Una complicazione nella complicazione: «Ovviamente l’obiettivo è curare la mamma per poter curare il bambino - prosegue il primario - ma è chiaro che dobbiamo monitorare il valore di entrambi».

Dentro le tute, con la doppia mascherina e le visiere e i guanti e i calzari si suda come se non più che in sauna. Nel corso del turno di 12 ore il personale si alterna tra chi è obbligato a indossare questo maledetto scafandro e chi si occupa delle altre incombenze. Come, ad esempio, chiamare le famiglie: «È sempre stata una delle fasi più delicate ma anche importanti del nostro lavoro - spiega Marta Bianchi - ma ora lo è ancora di più».

«Tante volte sono le famiglie stesse dei pazienti a farci coraggio - racconta il primario - Certo per loro è difficile: prima potevano entrare, vedevano il loro caro, si rendevano conto. Ora manca un mezzo e quel pezzo lo dobbiamo riempire noi, cercando di raccontare tutto, tutti i giorni». Una cosa è certa: «Anche questo aspetto, dal punto di vista psicologico, è pesante» sottolinea la dottoressa Bianchi.

La stanchezza si fa sentire

C’è spossatezza, fisica ed emotiva, un anno dopo: «Sì, la stanchezza non è poca - conferma la coordinatrice infermieristica, Eleonora Tricarico - Dopotutto è dai primi di ottobre che non c’è una pausa». Se la prima ondata è stata caratterizzata dalla paura, la seconda e la terza hanno messo a dura prova la tenuta fisica ed emotiva.

Da fine febbraio 2020, quando è stato ricoverato il primo paziente Covid, a oggi nella terapia intensiva del Sant’Anna sono passati almeno 300 malati: «C’è chi è rimasto una decina di giorni e chi invece qui è stato anche per più di due mesi - conferma Marta Bianchi - Purtroppo a molti pazienti il Covid ha lasciato vere e proprie cicatrici nei polmoni, tanto che una delle patologie del prossimo futuro sarà la cura dei pazienti usciti dal virus».

E poi ci sono quei malati che non hanno dimenticato che gli occhi dietro quelle mascherine e sotto quelle visiere hanno salvato loro la vita: «C’è chi ci gira le foto di adesso, come ringraziamento - conclude la dottoressa Bianchi - Due pazienti, che hanno superato la fase critica qui al Sant’Anna, nella prima ondata, poi li abbiamo trasferito a Menaggio, dove sono stati sempre assieme. Quelle giornate intere passate a parlare, li ha fatti diventare amici: ci hanno inviato una foto di un pranzo con le rispettive famiglie». Si intuisce un sorriso sotto la mascherina del medico. Che la stanchezza c’è, ma svanisce di fronte a una vita salvata. E qui sanno come salvarne.

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