Il filosofo drammaturgo: «Perché Dio non ha voluto che avessimo dei figli?»

Collegio Gallio Un monologo interiore al femminile scritto da Petrosino. Una domanda che genera mille risposte, nessuna davvero definitiva

«Perché Dio non ha voluto che avessimo dei figli? Li volevamo tanto, li abbiamo tanto sognati e attesi, li avremmo poi curati e amati e invece niente. Niente».

È la domanda che la signora Limpido non può smettere di porsi, una domanda che ritorna come un tarlo, erosivo, che costringe a scavare sempre più nel profondo. Una domanda che risuonava dal palco dell’Auditorium del Collegio Gallio per l’ultimo appuntamento con Le Primavere. “I coniugi Limpido” sono, ovviamente, in due, ma la pièce è un monologo interiore al femminile, letto con grande intensità da Silvia Barbieri, ma scritto da una mano assolutamente maschile, quella del filosofo Silvano Petrosino che, di ritorno alla manifestazione organizzata da La Provincia, ha proposto questa originale idea, nata, peraltro, da uno spunto fornito da Daniela Taiocchi, che dirige Le Primavere fin dalla prima edizione.

Tante risposte

La grande domanda, «perché non ho avuto figli?», non ha un’unica risposta, ne genera molteplici altre che riconducono sempre alla questione primaria, una questione superata, verrebbe da dire, per forza, per quei confini che l’età mette alla maternità, si potrebbe dire che «è andata così» (o, in realtà, «non è andata»), ma quella domanda, il «perché io no», permane e si snoda attraverso una lunga ruminazione che, sulla carta, non ha neppure punteggiatura («perché noi non pensiamo con i punti e con le virgole», precisa l’autore) se non i punti di domanda di quella persistente domanda. Al monologo, punteggiato dalla musica contemporanea di Jacopo Petrosino, è seguito un dialogo tra il neo drammaturgo e Daniela Taiocchi, riprendendo e sottolineando alcuni temi toccati dal soliloquio. La protagonista, ad esempio, non ha nome: del marito, Natale Limpido, sappiamo quello e tanto altro. Di lei no. «In un monologo interiore nessuno si chiama per nome – risponde Petrosino – Del resto il nome proprio ci è sempre dato da altri. Quindi nessuno si è dato il nome da sé e sono sempre gli altri che si chiamano per nome». Ed è interessante che, a questo punto, il filosofo riveli di portare il nome di una sorellina morta a pochi mesi, Silvana, una perdita straziante per una famiglia che aveva avuto una bambina. In qualche modo, anche inconsciamente, si gira sempre attorno alla familiarità. E se nessuno si chiama da sé, nessuno, appunto, pensa con la punteggiatura.

Perché non sono Joyce?

Ma, allora, perché rimane il punto interrogativo? «In fondo l’intero monologo ruota attorno a quel punto interrogativo, un interrogativo che continua a ripresentarsi e che la donna non riesce in nessun modo a tacitare: si tratta di una domanda che resta sempre aperta, che non trova una risposta definitiva. Peraltro questo punto interrogativo è sì, centrale, questa domanda è la Grande Domanda, ma non sono definitivi. Lei va avanti e decide di tornare a cucinare ancora una volta il risotto con la zucca e così il ‘no’ iniziale si trasforma ancora una volta in qualche modo in un ‘sì». Peraltro, quando Petrosino si rivolge una domanda autoironica, «Perché non sono Joyce?» (ovvero perché non sono un grande scrittore come lui, perché è successo a lui e non a me) si ritrova la matrice di quel sì, lo stesso che chiude il monologo di Molly Bloom nell’ultimo capitolo del’“Ulisse”, da leggere, però, in antitesi con questo: lì una donna riflette sul rapporto inappagato con il marito, ne rammenta il corteggiamento e l’amore e pensa all’amante che ora la appaga. Qui resta proprio solo l’amore per il marito, anche se non è sufficiente a cancellare la domanda.

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