«Il virus separa gli affetti
C’è bisogno di piccoli gesti»

Padre Alessandro Viganò, cappellano dell’ospedale Sant’Anna racconta le settimane aiutando i parenti dei malati al telefono tra angosce e solitudine

È stato missionario in India per quattro anni, in una delle zone più povere del mondo e, in Kenya, ci è rimasto per quindici durante i quali ha vissuto rivolte, guerriglie ed è stato anche malmenato.

Ne ha viste tante padre Alessandro Viganò, 57 anni, originario di Besana Brianza, di Villa Raverio per la precisione («i miei compaesani ci tengono»), camilliano, da tre anni superiore dei cappellani dell’ospedale Sant’Anna. Ma ovunque è stato finora, una carezza, una pacca sulle spalle, gli sguardi soprattutto dei più fragili sono stati alla base della sua missione. «Questo virus - racconta - ha rotto tutti gli schemi, ci ha portato a riflettere su come essere utili». E così, quando i primi malati arrivavano al Sant’Anna, padre Alessandro (e con lui padre Fabio Giudici e padre Chrispino Wasika), che vivono all’interno dell’ospedale, in tre stanzette e un soggiorno al piano zero, si sono dati da fare non potendo in alcun modo andare nei reparti dai malati.

«Ci siamo resi semplicemente disponibili - racconta - a dare un servizio ai familiari. Rispondere al telefono, dare un po’ di supporto, cercare di capire il loro caro in che reparto fosse, se era vivo e stava bene. Ascoltare la loro angoscia, lasciarli parlare. Avevano visto portar via da casa una persona cara senza sapere se l’avrebbero mai più rivista. Una signora mi ha chiamato perché era morto suo papà, mi ha chiesto cosa potevamo fare per dargli almeno la benedizione. Allora, in videochiamata, con anche i familiari lì con lei, abbiamo pregato insieme. Cose semplici. Una parola, una preghiera».

E poi nei corridoi dell’ospedale, quella che è la sua casa da anni, ma in questo periodo è decisamente diversa, l’incontro con medici e infermieri. Spesso stravolti. «Cerco, attraverso la presenza - prosegue - di dare una testimonianza di vicinanza. Basta un “ciao”. Anche per noi religiosi, che celebriamo messe e preghiere a distanza, è un momento di riflessione. Nel deserto. Nell’imprevisto, però, bisogna trovare il modo di navigare nella tempesta, anche se non sicuri, anche se controvento». Un momento in cui, secondo padre Alessandro, «bisogna sganciarsi dalle certezze e mettersi al servizio degli altri» e lui cerca di farlo «come uomo e come prete». Di storie ne ha vissute tante, in queste settimane. Attraverso le voci di chi si è rivolto a lui. E, proprio la sua, di voce, è stata un punto di riferimento per tanti che non l’hanno mai visto né hanno potuto stringergli la mano. «Ho assistito a tanta angoscia, tanta paura. Non dimenticherò la chiamata di una ragazza dalla Svizzera che voleva avere informazioni del padre ricoverato qui, anche se con lui non aveva più rapporti da tempo, ma lo faceva per la mamma a casa sola. Era arrabbiatissima, sono stato ad ascoltarla per venti minuti, l’ho lasciata sfogare e, alla fine, mi ha detto che avrebbe cercato di chiamare il papà per riconciliarsi con lui. Non abbiamo fatto cose grandi, ma gesti semplici per far sentire la presenza di Gesù. Siamo tutti sulla stessa barca qui, ciascuno con le sue qualifiche, nessuno è migliore o peggiore degli altri, ma ognuno deve dare quello che può. Questa barca la dobbiamo governare tutti insieme». Gisella Roncoroni

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