«Mio papà morto, famiglia contagiata
E i tamponi ce li siamo dovuti pagare»

La denuncia di una comasca: per tre mesi nessun test, neppure a fine quarantena

Poco meno di quattrocento euro. Tanto sono costati, a una famiglia comasca, gli esami per verificare se il maledetto virus avesse preso pure loro e, scoperto che sì, lo aveva fatto, per fare (pagando pure quello) il successivo tampone obbligatorio. Esami che l’Ats Insubria e la Regione Lombardia non gli hanno mai voluto fare (anche se sarebbero stati tenuti) e che loro sono stati costretti a pagarsi, a dispetto di settimane di malattia, quarantena e, soprattutto, di un lutto in famiglia.

Al netto della propaganda su quanto bene sia stato contenuto il virus in Lombardia (parole del governatore Attilio Fontana) e quanto bene abbia lavorato la sanità lombarda parole dell’assessore Gallera), ci sono le storie delle persone. E queste fotografano una realtà che è opposta alle parole della politica.

L’ennesimo racconto di quello che, in regione in generale e nella nostra provincia in particolare, è lo scandalo tamponi (pochi, in ritardo, fatti male), arriva dalla voce pacata ma amareggiata di Barbara Colombo. Il suo è un racconto puntuale, lucido, sconvolgente.

«Erano i primi giorni di emergenza - attacca - Sarà stato il 10 o l’11 marzo e io scopro di avere qualche linea di febbre. Chiamo il medico e mi raccomanda: “Stai isolata dal resto della famiglia. Potrebbe essere solo influenza, ma non si sa mai”. Così faccio. Mio marito si trasferisce in taverna, io resto sola in camera. Ma in casa nostra, oltre a noi due, vivono anche i nostri due figli, di 14 e 17 anni, e soprattutto mio padre, che l’1 maggio avrebbe compiuto 88 anni». L’unica a non sentirsi bene, nella settimana in cui l’Italia piomba nel lockdown, è però lei.

«Il giorno dopo, anche se mi sentivo come se mi fosse passato sopra un camion, la febbre non c’era più. E non avevo tosse. Nel fine settimana mi è tornata la febbre e, infine, è arrivata pure la tosse: forte, insistente. Il medico mi dice subito: “Temo tu abbia il Covid”. Erano i primi giorni, in cui ancora non si sapeva bene cosa fare. Decido di chiamare il numero verde della Regione Lombardia», super pubblicizzato in quei giorni, come fosse la panacea di tutti i mali.

Mi spiace, niente tampone

«L’operatore che mi risponde mi chiede: “Ma lei è stata in contatto con qualche persone positiva al Covid?”. Io onestamente non lo sapevo e quindi gli ho detto che non potevo escluderlo». La risposta dell’operatore, soprattutto alla luce della diversa strategia adottata ad esempio dal Veneto, che si è salvato dal disastro in cui è invece piombata la Lombardia, è disarmante: «“Il tampone è previsto solo per chi è rimasto in contatto con chi ha avuto il Covid, mi spiace” spiega. Nel frattempo però non solo io sto sempre male, ma anche i miei figli e mio marito iniziano a non stare bene».

Siamo a venerdì 20 marzo. E la febbre arriva anche al papà di Barbara, il signor Sergio Colombo. «Il dottore mi consiglia di iniziare subito con l’antibiotico, ma mio papà è peggiorato rapidamente - spiega la figlia - Sabato la febbre si è alzata, domenica faceva fatica a respirare, lunedì siamo stati costretti a chiamare l’ambulanza». Sergio Colombo viene portato al Sant’Anna: «Una dottoressa gentilissima mi spiega che hanno fatto il tampone, ma che i risultati arriveranno solo dopo qualche giorno. Ma che la tac è chiara: si trattava di Covid e la situazione era molto grave». Martedì 24 marzo il signor Colombo muore.

«Psicologicamente distrutti, con il terrore che potessimo peggiorare anche noi, due giorni dopo ricevo la chiamata del mio medico che mi informa che devo contattare l’Ats, perché l’esito del tampone di mio padre era positivo».

L’inerzia di Ats Insubria

E qui comincia la seconda odissea: quella targata Ats Insubria. «Per prima cosa mi dicono che devono inviarmi tutti i documenti da compilare con i nominativi dei conviventi di mio papà, per attivare la quarantena obbligatoria. Io, memore della telefonata con il numero verde della Regione in cui mi avevano detto che il tampone lo facevano solo se si era stati in contatto con un paziente Covid, mi sono detta: ora chiedo di poterlo fare per tutta la famiglia. Risposta: “No, noi non veniamo a casa a fare il tampone. Dovete restare in quarantena fino al 6 aprile”. E dopo? Chiedo io. Mi farete il tampone prima di uscire? Risposta: “No, non è previsto”».

Comprensibilmente Barbara Colombo si sente spiazzata. Ma non si arrende: «Chiedo: ma quindi il 7 noi teoricamente potremmo uscire e tornare a lavorare. E l’operatore mi dà una risposta che, se ci penso oggi, mi viene da tremare: “Sì, perché dopo 15 giorni si negativizza. L’importante è uscire con mascherina e guanti”».

Riassumendo: già l’11 marzo Barbara Colombo teme di essersi contagiata. Ma nessuno le fa il tampone perché non sa dire se ha incontrato un malato Covid. Quando è certa di esserci vissuta assieme (suo padre) non le fanno il tampone perché ormai è troppo tardi. E quando termina la quarantena non le fanno il tampone per accertarsi che non sia più positiva, perché tanto non serve.

«Anche il mio medico, ricordo, era disperato. Diceva che i tamponi l’Ats non li faceva a nessuno. Dopo il 6 aprile stavamo bene, ma siamo rimasti ancora a casa una settimana, ma poi mio marito è tornato al lavoro. Senza che nessuno si preoccupasse di farli un controllo per accertare che si fosse negativizzato».

La scorsa settimana tutta la famiglia decide di sottoporsi a test sierologico. «Ce lo siamo pagati noi: 26 euro a prelievo. Il test ha confermato che siamo stati tutti contagiati: io, mio marito, i nostri figli». E questo risultato trasforma uno scandalo in una farsa: «Arrivato l’esito ci hanno messi tutti in quarantena obbligatoria. E siamo stati costretti a farci i tamponi a nostre spese per verificare non fossimo più positivi: altri 66 euro a testa» che nessuno rimborserà, visto che la regione te lo paga solo come “premio” se sei positivo. La conclusione è ovviamente di amarezza: «Se 4mesi fa mi avessero chiesto in quale regione mi sarei sentita più sicura in caso di pandemia, avrei sicuramente risposto la Lombardia. Ho avuto un risveglio brusco e drammatico di quale, invece, sia la realtà».

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