«Noi, unico tramite con i parenti
Messaggeri di dolore e speranza»

Al Valduce un’intera équipe dedicata a tenere contatti quotidiani con i famigliari dei pazienti contagiati

Il virus maledetto non colpisce solo i polmoni. Attacca anche il cuore e l’anima e i sentimenti. Divide famiglie, coniugi, figli e genitori. E così cinque dottoresse del Valduce, all’inizio dell’emergenza, hanno messo in piedi un nuovo reparto: quello che si occupa di curare gli affetti spezzati dal Covid. E i loro pazienti sono tutti i famigliari delle persone ricoverate in ospedale, chiusi in casa in ansia per le sorti dei loro cari.

«Da sei settimane - spiegano due dottoresse dell’équipe, Nicoletta Lenoci e Cristina Luzzana - ogni giorno facciamo dalle sessanta alle settanta telefonate per parlare con i parenti delle persone ricoverate qui da noi». L’idea è nata quando ai piani superiori dell’ospedale sono nati i reparti Covid: «Per ragioni di salute alcune di noi non possono lavorare in quei reparti. Ci sentivamo del tutto inutili, mentre gli altri medici, gli infermieri, gli operatori socio sanitari, erano costretti a turni massacranti per curare le persone. Allora ci siamo chieste: come possiamo aiutarli da fuori?».

La risposta è stata praticamente immediata: «Questo virus ha costretto gli ospedali a chiudere le porte. E i pazienti che arrivavano erano soli, si sentivano abbandonati dai propri cari. Mentre a casa i parenti, magari costretti a stare in quarantena, avevano troppo tempo per pensare al peggio. Quindi abbiamo deciso di creare un rapporto quotidiano, un canale di comunicazione continuo con le famiglie dei pazienti».

Nell’équipe lavorano anche le dottoresse Anna Tusei, Francesca Prigione e Manuela Spata.

«Dal reparto ogni giorno, assieme alla cartella clinica, viene compilata anche una scheda destinata a noi con tutte le informazioni utili da inviare a casa». Informazioni mediche, certo, ma anche e soprattutto personali e umane: «Una delle domande più ricorrenti che ci fanno i famigliari è: “Ma voi l’avete visto? Ma mangia? Ma riesce a parlare”». Ecco che, quindi, nella scheda finiscono anche quelle informazioni relative a un saluto, a una parola detta, a un particolare catturato dai medici che, protetti nelle tute antivirus, entrano quotidianamente nelle stanze dei contagiati.

«Abbiamo anche una counselor (Cristina Canu ndr) che si interfaccia con i parenti a casa. Se notiamo alcune problematiche particolari, dal punto di vista emotivo, le segnaliamo a lei e nel giro di un’ora, dopo aver preso contatti con la famiglia, ci rimanda un feedback».

Una delle maggiori difficoltà da gestire, è quando più persone dello stesso nucleo famigliare sono ricoverate: «Abbiamo avuto tantissimi casi - confermano le due dottoresse del Valduce - Questo virus ha colpito spesso nelle stesse famiglie».

Come quando nel reparto Covid si trovavano marito e moglie e, a casa, il figlio - pure lui malato - era in quarantena. «Quando la signora è deceduta, il figlio oltre al dolore per la perdita della madre doveva gestire il trauma di informare il padre, che si trovava ancora in ospedale». E che non aveva potuto dire addio alla moglie. L’agenzia di pompe funebri, il giorno dell’ultimo viaggio della donna verso il cimitero, ha pensato però che almeno il figlio dovesse salutare la madre: «Sono passati sotto casa e lui si è potuto affacciare al balcone» per un ultimo bacio.

Dopo i primi giorni di emergenza, poi, si è aggiunta un’ulteriore difficoltà nel lavoro dell’équipe: «Sono iniziate ad arrivare delle domande molto condizionate dalle informazioni veicolate alla televisione e sui giornali o sul web - spiegano le dottoresse Lenoci e Luzzana - In questo caso abbiamo dovuto lavorare molto per recuperare il senso di fiducia verso il lavoro che si faceva in reparto».

L’ansia del post ricovero

Settimane di chiamate quotidiane creano anche dei rapporti: «Il parente di un paziente, il giorno in cui abbiamo comunicato che il giorno dopo lo avremmo dimesso perché il secondo tampone era negativo, ci ha detto: “Ma allora non possiamo sentirci più?”». In realtà i contatti non finiscono con l’uscita dall’ospedale: «Per due settimane continuiamo a chiamare a casa gli ex pazienti, per sincerarsi delle loro condizioni». E al telefono ci sono persone ancora spaventate: «Tutti, a ogni minimo sintomo, si spaventano. Hanno l’incubo che possano riammalarsi. Molti devono convivere con stati d’ansia, quasi tutti con l’insonnia. C’è chi reagisce gettandosi anima e corpo sulla ripresa fisica e chi invece vive la presa di coscienza di quello che ha vissuto».

E cosa dire dell’ansia di chi si fa carico di curare il Covid o le paure dei parenti contagiati a casa? «Va gestita anche questa. In ospedale tutti si sono messi a disposizione. E così il massofisioterapista, che al momento non può lavorare sui pazienti, lo fa sul personale per stemperare le tensioni accumulate sul lavoro, perché la salute fisica e psichica di chi cura è fondamentale».

Anche perché tutti, al Valduce come nelle altre strutture ospedaliere comasche e non, si occupano tutto il giorno esclusivamente dello tsunami Covid: «Non esiste un’altra vita per nessuno. Siamo tutti sommersi da questa emergenza. Ce la portiamo a casa». La normalità è già nostalgia.

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