«Non siamo mai stati “eroi”
Ma quella solidarietà è finita»

La caposala del pronto soccorso del Sant’Anna: «Gli infermieri sono stanchi»

Le colleghe raccontano che quando la caposala del pronto soccorso del Sant’Anna, lo scorso marzo, arrivava al mattino in ospedale e trovava l’ufficio pieno di brioche, piadine, pizzette, dolci offerti da tutta una popolazione grata per il sacrificio dei sanitari, ci provasse anche a lamentarsi: ma come si fa a maneggiare cibo con il virus in agguato fuori dalla porta? E, nonostante questo, non c’era volta che quei doni non le strappassero un sorriso. Ma marzo e aprile, ora, sembrano un ricordo remoto. E non è necessariamente una buona notizia, soprattutto se il pronto soccorso è tornato a riempirsi di pazienti affamati di ossigeno come, anzi peggio che allora.

«Non ci è mai piaciuto l’appellativo di eroi - chiarisce Manuela Soncin, la caposala - Però allora sentivamo la solidarietà, la vicinanza, la forza che ci davano le persone con i loro regali e il loro incoraggiamento. Oggi tutto questo è finito». Tutto dimenticato. Tutto relegato al passato. Come se, ora, ritrovarsi faccia a faccia con il maledetto virus fosse meno pericoloso e meno duro. «Ma gli occhi dei pazienti che faticano a respirare, quelli sono gli stessi di allora».

L’ufficio di Manuela Soncin, a un occhio distratto, potrebbe sembrare quasi lo studio di un architetto: sulla scrivania almeno un paio di mappe e piantine colorate riproducono corridoi, studi, uffici, ingressi, percorsi del pronto soccorso. Afferra la prima e punta il dito: «La zona in rosso è l’area Covid, quella verde la zona pulita». Sulla piantina il verde vince, il rosso sembra relegato a un ruolo marginale. Bene, verrebbe da pensare. Poi prende un’altra mappa: «Quella era la situazione due o tre settimane fa. Questa è la cartina aggiornata». Il rosso stravince, il verde quasi è sparito. Ma non del tutto. «Durante la prima ondata pazienti non Covid in pronto soccorso non ne arrivavano più. Ora invece di casi differenti ne arrivano, e molti non sarebbero neppure casi da pronto soccorso». Codici verdi, o peggio, che dovrebbero evitare di affollare il reparto d’emergenza: «Non c’è consapevolezza di quale sia la situazione reale». Chissà, forse prima il virus faceva più paura: «Ma resta comunque pericoloso» e potenzialmente fatale. E basterebbe guardare i numeri: ieri 623 vittime in Italia, 152 morti in Lombardia. E dietro ogni numero un volto. Una storia. Una vita che si spegne.

«C’è maggiore stanchezza tra di noi - ammette Manuela Soncin - Certo, la prima ondata ci ha permesso di acquisire più consapevolezza e maggiore preparazione. Ci ha anche uniti: abbiamo imparato a capirci con uno sguardo, si è formato uno spirito di squadra ancora più forte. Ma ci ha anche provati: nessuno si lamenta, ma si capisce che il clima è ben differente rispetto a marzo e aprile». La caposala non si nasconde dietro un dito: «L’ospedale ha attivato lo sportello psicologico per il personale. E qualcuno dei miei io l’ho mandato perché serve e ne sentiamo il bisogno».

Ciò che resta identico ad allora è il peso nell’animo per tutti quei pazienti spaventati e soli: «Lo stacco dai parenti è uno degli aspetti che ancora oggi non possiamo assolutamente ignorare - prosegue ancora Manuela Soncin - La solitudine del paziente è forse la cosa più brutta. Per questo motivo a ognuno di loro lasciamo la possibilità di utilizzare il telefono cellulare, se lo desiderano. E poi appena possiamo, per chi non ne ha uno, prendiamo lo smartphone che la direzione ha dato al pronto soccorso per consentire a tutti di mettersi in contatto con casa». Anche così si cura il maledetto virus: esorcizzando la paura con una telefonata, uno sguardo, una stretta di mano, una carezza. Tutte medicine che la stanchezza, i ritmi, le emergenze, in questi corridoi non mancano mai. Oggi come a marzo. Quando gli “eroi” erano un po’ più “eroi”.n 

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