Università: concorsi, elezioni e budget
Perché la fedeltà conta più del merito

Esposto mette in dubbio le procedure per alcuni bandi di assunzione all’Insubria

«Abbiamo bisogno di fedelissimi». L’esclamazione, attribuita a un professore di rilievo dell’Insubria da almeno due fonti confidenziali sentite da La Provincia, non dovrebbe destare molto stupore a chi conosce bene il meccanismo delle università italiane. Dove, da sempre, le scelte dei ricercatori e dei professori sono spesso accompagnate da polemiche, sospetti, ricorsi. È il caso, com’è noto, di almeno quattro concorsi del Dipartimento di scienze umane di Como di cui abbiamo dato notizia in questi giorni: tre per un contratto come ricercatore, il quarto per un posto da professore di prima fascia.

Ma per quale motivo la fedeltà viene, in molti casi, premiata più del merito? La risposta la si può trovare nelle regole della democrazia interna alle università.

Innanzitutto, per i non addetti ai lavori, è utile ricordare come funziona la carriera universitaria, che inizia con il dottorato e l’assegno di ricerca. Ma il passaggio cruciale che segna l’ingresso di un aspirante professore in ateneo è il concorso per ricercatore a tempo determinato. I posti da ricercatori da bandire, all’Insubria (così come nelle altre università) vengono assegnati su decisione del consiglio di Dipartimento. Chi vince il concorso entra lui stesso nel consiglio e partecipa così alla votazione per i posti da bandire, oltre che all’elezione del capo del Dipartimento stesso. Non solo, perché ogni Dipartimento ha autonomia di budget e di decisione su come utilizzarlo, inoltre ogni ricercatore partecipa anche all’elezione del Senato accademico e soprattutto di rettore e vicario. Il loro voto vale esattamente come quello dei professori di prima e seconda fascia.

Si dirà: una volta messo un piede in università, fedele o non fedele il ricercatore potrà decidere autonomamente senza alcuna conseguenza. E invece, per tre anni, i ricercatori sono assolutamente precari. Terminato il triennio, infatti, saranno sottoposti a una valutazione interna per decidere se farli diventare professori associati (di seconda fascia).

Ecco, dunque, che il meccanismo rischia di creare un corto circuito quasi inevitabile a favore dei fedelissimi.

Se la fedeltà dei ricercatori è dunque potenzialmente ambita, anche sui concorsi per le progressioni di carriere il meccanismo rischia di premiare scelte mirate e, tra un candidato interno e un concorrente esterno, prediligere il primo a quest’ultimo. Il motivo? In parte economico, perché il passaggio di ruolo dell’interno comporta solo un incremento dello stipendio, l’arrivo di un esterno è invece un dipendente in più da retribuire (e questo incide sui budget, togliendo altre opportunità); in parte anche organizzativo, perché non è detto che un secondo professore nello stesso ambito d’insegnamento serva davvero.

Nel corso degli anni i vari governi hanno cercato di mettere mano al meccanismo dei concorsi universitari, per tentare di trovare una metodologia che possa premiare davvero il merito piuttosto che la fedeltà (o peggio, come le cronache del passato purtroppo insegnano). Finora ogni tentativo sembra però clamorosamente fallito.

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