Don Verzé si confessa
"Anch'io ho sofferto il vuoto"

Nell'ultimo libro, il fondatore dell'ospedale e dell'Università San Raffaele ripensa alla tesi di laurea su S. Crisostomo e al prete idealista che era, a vent'anni. E' l'occasione per rileggere il suo passato, umano e intellettuale, non privo di momenti di crisi. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto del volume, in esclusiva.

di Luigi Maria Verzè


Quando ripenso al ragazzo che, più di sessant’anni fa, incontrò il Crisostomo, mi vedo chino in biblioteca a consumare giornate intere sui libri.
Si era in tempo di guerra, c’erano i bombardamenti, eppure ricordo di quel periodo soprattutto l’entusiasmo. Già da allora amavo la libertà, e per questo ero felice di potermi confrontare con i cosiddetti modernisti, sacerdoti di grande scienza e penetrazione biblica, aperti alla cultura laica e attenti ai problemi sociali, che parlavano l’ebraico come io parlavo l’italiano. Discorrere con loro era un privilegio e una delizia, ma uno in particolare, che insegnava dogmatica, mi conquistò. Spesso, usciti da scuola, facevamo un tratto di strada insieme, parlando serratamente; ho un’immagine ancora molto vivida del suo compiacersi nel sentire in me una foga volta a rompere la chiusura del dogma; una tensione a conquistare gli insegnamenti, non a subirli. La lettura dei Padri della Chiesa fu, in quel periodo, un’esperienza ardente che, liberandomi dalla costrittività dottrinaria della scuola, segnata dalla prudenza di papa Pio X – grande antimodernista preoccupato della conservazione della verità autentica – mi fece scoprire che la verità autentica si può raggiungere anche dall’esterno della turris eburnea. San Giovanni Crisostomo, sopra a tutti, mi fu di immenso giovamento: era un irruente, possedeva la carica polemica di Demostene, ed era colmo della verità. Una verità maturata, metabolizzata – maciullata, persino – in se stesso: aveva il Verbo incarnato. Quella verità è stata la mia guida per tutta la vita (...)

In quegli anni ferventi di studio, anche Sant’Atanasio di Antiochia attirò grandemente la mia curiosità; era forse più autopenetrativo, occorreva leggerlo con grande attenzione; l’amore per la sua opera si estese a San Policarpo per arrivare, come una fiammata, al Boccadoro. Ero innamorato del greco, come dell’aramaico e del sanscrito, e tra tutti quei Padri, soprattutto greci, che potevo incontrare nella freschezza e nella potenza intatta della loro lingua e della loro scrittura, proprio in San Giovanni Crisostomo – ferma la dottrina in comune – trovai l’espansione più evidente. Si trattava, nel grande Dottore antiocheno e poi costantinopolitano, di una dottrina portata alla comprensione della gente, rivolta alla mente e al cuore tanto dei poveretti che gli si presentavano tutti sbrindellati, che dell’imperatrice Eudossia e dei suoi cortigiani, che gli si presentavano indorati e bardati di monili; persino le redini dei loro cavalli erano d’oro, e le mangiatoie. Vergogna, vergogna! gridava loro il Crisostomo. Da lì gli vennero tutti i guai, le inimicizie, la morte in esilio, pover’uomo (...) mi avvicinava a lui quella che sentivo come un’affinità di carattere (...).

San Giovanni Crisostomo è stato lo scrittore più vasto, la sua è un’opera colossale, e io, che lo leggevo accanitamente, non potevo non restarne affascinato. La sua dottrina sociale mi avrebbe orientato alla predicazione e, strano a dirsi, al giornalismo; volevo fare il giornalista. Avevo già discusso la tesi di laurea, quando don Calabria, il mio maestro, impresse una svolta diversa alla mia vita, con poche, inappellabili parole: basta scrivere, basta parlare.
Bisogna farlo, il Vangelo. Durante la guerra, avevo visto tra le macerie di un bombardamento una donna morta, con il suo bambino ancora vivo tra le braccia; avevo visto crollare uno a uno tutti i ponti sull’Adige, minati dai tedeschi; avevo visto mio fratello tornare malato da un campo di prigionia in Etiopia. Di fronte a tanto dolore, il cruccio: come aiutare i prossimi? come prendermi cura dei corpi sofferenti? Cominciò a radicarsi in me un amore per la medicina che, poco per volta, mi pose di fronte a un dilemma inestricabile che portai ancora una volta a don Calabria, di cui ero allora segretario particolare. Al mattino presto, poche ore prima di essere consacrato sacerdote, andai da lui e gli dissi: padre, sono incerto se fare il sacerdote o se imboccare la professione del medico. Restò in silenzio, in piedi, le mani giunte, congestionato per la concentrazione, poi mi rispose: no, adesso tu vai a farti consacrare sacerdote; quanto al medico, il Signore dirà. Divenni sacerdote e cominciai a lavorare con i ragazzi di strada. Aspettando che il Signore dicesse.

<+G_TITOLINI>Una sofferenza interiore
<+G_TONDO>Don Calabria visse secondo carità, convinto che il mondo si potesse salvare solo tornando a Cristo e al suo Vangelo. Eppure vidi più volte, in lui, un genere di sofferenza terribile, che qualche volta ho sentito anch’io; una sofferenza che non auguro a nessuno: il vuoto, il vuoto assoluto, sentirsi di nessuno, privi di giustificazione del sé. Nella mia vita ho sempre detto: Signore, ti ringrazio di avermi fatto vivere. Perché, anche se non fossi nulla, il vivere è già un fatto. Ma se ci si comincia a chiedere, perché? perché vivere? allora si cade nel vuoto, allora il dubbio comincia a scavare e non lascia nulla di intatto. Come faccio, a vincerlo? Con la preghiera, senz’altro; e con le letture, con l’esempio dei martiri e delle martiri, e dei Padri. La dottrina è un grande ancoraggio, ma quando il Signore vuole liberarti dal tuo sé adopera strumenti terribili, meglio non pensarli. Come faccio, a non pensarli? Mi diverto: giocando, lavorando, scrivendo. Scrivendo, soprattutto, ritrovo me stesso, le mie radici, il mio essere. Forse mi aiuta la propensione al fare, sorretta da quella focosità del carattere che subito riconobbi nel Crisostomo.


(Estratto da © Luigi Maria Verzè, Cristo, il vero riformatore sociale, Editrice San Raffaele, 282 pag., 16 euro)

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