Brass si "confessa"
"Mio padre mi cacciò"

In un'intervista "intimista" a La Provincia, il più trasgressivo dei registi italiani ricorda la tensione nei rapporti con il padre: a 18 anni trovò la porta di casa con la serratura cambiata. Iniziò un vagabondaggio che lo portò a Parigi e al cinema...

di Alberto Bortoluzzi

Sembra un moschettiere, Tinto Brass, 76 anni, mentre avanza nella penombra del multisala Miv di Varese coperto da una lunga mantella nera. Lo accompagna Caterina Varzi sua ultima musa ispiratrice. Quello che si presenta è un Brass inedito, il Brass poetico e idealista dei suoi primi film. Da "In capo al mondo" (1963), censurato all’uscita per il suo attacco politico alle classi di potere e alla Chiesa, divenuto poi "Chi lavora è perduto" dopo lo sdoganamento del primo governo di centrosinistra.
A "Ça ira. Il fiume della rivolta" (suo unico documentario1964), grande lavoro di montaggio che tratta il tema delle guerre, delle dittature, delle ribellioni; fino ad arrivare ad "Action"> (1980), viaggio surreale nella mitologia cinematografica degli anni 70. Osservando il modo con cui sono girati i suoi primi film, balza subito all’occhio la modernità di queste pellicole ripensate a quei tempi. Anche l’incontro con il pubblico riserva piacevoli sorprese, siamo di fronte a un personaggio profondo, serio, simpatico, mai volgare. L’occasione per conoscerlo meglio si presenta il giorno dopo quando lo ritraggo nel mio studio fotografico e quando lo accompagno a Milano per prendere il treno e far ritorno a Roma, dove ora risiede.

Signor Brass, cosa l’ha portata a decidere di fare il regista?
«Ho sempre amato il cinema, era una cosa che mi riusciva facile, e poi soprattutto un mezzo per raccontare - racconta - Gli inizi non sono stati facili, provengo da una famiglia  bene veneziana, mio padre faceva l’avvocato, e non vedeva di buon occhio i  miei credo politici e la mia condotta morale. Lui era un fascistone, aveva fatto la marcia su Roma, faceva parte di un certo ambiente che io osteggiavo. Io al contrario ero impegnato politicamente, facevo lotte a favore della classe operaia, degli emarginati, dei matti rinchiusi nei manicomi e dei sani che vi venivano internati per farli tacere.
Le donne poi mi sono sempre piaciute e dopo una certa età, viste le belle ancelle che circolavano per casa, non avevo perso l’occasione neppure con loro, naturalmente con grande riprovazione famigliare. Così un bel giorno, avevo circa 18 anni, al rientro da una serata brava, ho scoperto che la serratura di casa era stata cambiata: ero stato cacciato».

Che cosa successe? Si riavvicinò o ruppe con la sua famiglia?
«Mio padre si era illuso, che grazie a questa lezione di lì a breve sarei tornato a casa con la coda tra le gambe, si aspettava le mie scuse, si sbagliava, la  cosa che non è mai avvenuta. In quei tempi ho vissuto un po’ da vagabondo dalle parti della Giudecca a Venezia, ospite di amici e fidanzate, per poi partire alla volta di Parigi».

Come è arrivato, al cinema?
«Lì ho trovato lavoro alla Cinematéque Francaise, dove sono stato quattro anni, facevo un po’ di tutto. Parigi era meravigliosa a quei tempi. È in quel periodo, che mi sono appassionato al montaggio, complice un grande documentarista: Joris Ivens, politico rivoluzionario con il quale ho collaborato alla realizzazione di un documentario su Chagall. Dopo il periodo parigino, sono tornato a Venezia e  ho girato il mio primo film, "In capo al mondo".

Suo padre cosa disse del suo esordio da regista?
«Non ti dico mio padre quando l’ha visto, nel film c’erano alcune citazioni sulla sua persona, e un attacco al  mondo in cui credeva. Non me l’ha più perdonata, sono stato estromesso dall’eredità».

Ma cosa le ha fatto rinunciare alle lotte di allora, ai cosidetti film impegnati per dedicarsi ai film erotici?
«A un certo punto ho capito che la politica era un fallimento, una presa in giro; che i politici erano una classe corrotta che pensava solo ai propri interessi. Per me la vera rivoluzione è stata quella sessuale. Amando io le donne e il sesso, avevo il desiderio di mostrarlo come un qualcosa di gioioso, spensierato, non con quella visione deprimente in cui veniva abbinato al concetto di morte. Perché credi che Venezia si chiami la "Serenissima", perché qui c’è sempre stata una grande libertà sessuale e la gente è sempre stata felice. Il carnevale è stato inventato per legalizzare i tradimenti.
Nel settecento esistevano i cicisbei, i famosi "cavalier serventi" che accompagnavano le donne nelle occasioni mondane con il benestare dei mariti, erano i loro amanti ufficializzati. Questo clima libertino ha sempre attratto a Venezia artisti di ogni tipo. Per non parlare dei bordelli, posti che ho frequentato per dieci anni: ce n’erano trenta, come i cinema. Un po’ come dei club inglesi per soli uomini».

Sua moglie come ha vissuto questa suo modo di concepire la vita?
«Mia moglie, è stata una gran donna, mi ha sempre capito ed è stata mia complice. Sapeva distinguere cosa era per me un discorso affettivo da uno sessuale. All’inizio ero osteggiato anche dalla famiglia di lei, poi quando sono nati i nipoti il rapporto è cambiato».

Ha ancora casa a Venezia?
«No non ce l’ho più, ma quando ci ritorno, sono ospite di mio figlio alla locanda "Cipriani", si mangia divinamente bene e alloggio nella stanza dove dormiva Hemingway, cosa vuoi di più!».
Siamo arrivati nel frattempo alla stazione centrale di Milano, Tinto mi guarda  e dice: «Io non so guidare, quindi il passaggio non lo posso ricambiare; ma se vieni a trovarmi quando sono a Venezia ti faccio fare un giro in gondola, a vogare sono molto bravo, ho fatto anche le regate».

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