Nel cuore antico
di un grande ospedale

Il nuovo S. Anna è ultimato e aprirà i battenti nel 2010
Le sue radici incontrano la solidarietà comasca

Il 2010 passerà alla storia, per i comaschi, come l’anno del trasloco dal "vecchio" al nuovo ospedale Sant’Anna. La vicenda dell’istituzione sanitaria è legata a doppio filo con quella della città, attraverso alcuni protagonisti che, oggi più che mai, meritano di essere ricordati.


Quegli stanzoni dai soffitti così alti, quei letti di ferro così uguali,quel ristagno che non se ne andava mai. Disinfettante, cloroformio, scìa  del carrello delle vivande, chissà, forse è la pelle dell’umanità malata che cambia odore e la caposala, una delle 50 suore di Maria Bambina in servizio all’ospedale Sant’Anna, non voleva che si cambiassero tutte le lenzuola tutti i giorni. «Ogni mattina,quello sotto, lo metti da lavare. Quello sopra, lo metti sotto», spiegava alle ausiliarie il primo giorno di lavoro e stava addosso, per verificare che le lenzuola fossero ben tese fin quasi a strapparsi, ma solo quasi e che gli angoli fossero impeccabili. Suor Biancamaria, si chiamava, giovane e spigliata, con un solo cruccio: non riusciva a far passare l’idea di trasferire il suo reparto, il reparto di pneumologia, dal vecchio padiglione al monoblocco, realizzato quattro anni prima.
Avrebbe voluto parlare personalmente con l’onorevole Carlo Repossi, stimato capo del consiglio d’amministrazione, ma una delle nomine più difficili della storia amministrativa comasca o con l’avvocato Diodato Lanni, presidente dell’ospedale dal 1958 al 1971 e poi dal 1973 al 1975, l’anno della morte, padre del “corpo centrale” del Sant’Anna e di tante belle cose che resero l’ospedale di via Napoleona l’istituzione più cara ai comaschi. «Aiutateci, l’anno prossimo, a trasferirci di là»: davanti al presepio di reparto, nel Natale del 1972, Suor Biancamaria aveva unito le mani in preghiera, davanti al Bambinello e al primario, Giovanni Rossini, fra coloro che più contribuirono a far crescere la grande Casa comasca, la Casa della cure, la Casa dell’assistenza. Il professore fece un cenno con il capo: i primari, allora, erano tutti molto sobri, nelle parole e nei gesti, erano tutti nobili e tutti temuti, un primario del Sant’Anna, poi. Era e si chiamava Giovanni Fiorani Gallotta, ortopedia e traumatologia, per esempio. O era e si chiamava Renzo Pecco, chirurgia e ancora, Salvatore Galdini, urologia, Giulio Joo, pediatria, con l’aiuto Cremente Sticca e Sandro Rezzonico, neurologia, Pietro Binda, medicina, Cesare Matteucci, anestesia, Renato Rossi, nefrologia e la dottoressa Graziella Lupo, chirurgia plastica.  L’elenco non si esaurisce qui, ma che nomi, che volti, che mani e che uomini o donne hanno raccolto il testimone e c’erano primari che prima di appoggiare l’orecchio sulla schiena di un paziente, chiedevano alla suora di coprirla con un telino di garza. Si capì dopo che era per rispetto del paziente, non per loro.
Il primario Rossini, dunque, fece un cenno con il capo, intrecciò le mani dietro la schiena e se ne andò, imboccò il corridoio, camminò lungo la veranda inondata dal sole di dicembre e dal fischio di una sirena. La Regione era stata istituita quasi due anni prima, non erano ancora chiare le competenze regionali in sanità, i regolamenti attuativi erano ancora in corso; la società era percorsa dai dibattiti e dalle polemiche sulla “medicina politica” e sulla “medicina per tutti”, si cominciava a parlare di prevenzione e di riabilitazione, di collegamenti tra ospedale e territorio, di riforma delle mutue.  «Domani, il primario non viene - suor Biancamaria informò le infermiere - domani è Natale e il reparto sarà comunque pieno». In quegli anni, si stava in ospedale tutto il tempo necessario e anche di più. Non era l’ospedale dalle porte girevoli, come adesso, organizzato sull’urgenza e sull’emergenza: sette giorni per un’appendicite, quindici giorni per una bronchite, allora, il 20% della spesa ospedaliera finiva sotto la voce “ospitalità”, il 12% per il vitto e fino agli anni ’60, maiali vivi venivano macellati sul posto, perché ai ricoverati e al personale bisognava dare il meglio. Lo raccontava Tobia Galli, che andava in Lambretta da Fenegrò a Como per macellare i maiali: gli eredi conservano ancora la pistola all’uopo. Il meglio e non sempre è stato possibile, ma quale storia non ha capitoli neri? «Domani, il primario non vede. Domani, un goccetto ai malati. Spumantino», ordinò Suor Biancamaria e subito dopo ordinò alla praticante crocerossina di asciugare le siringhe. Allora, erano tutte di vetro, si usavano fin quando si rompevano, era una tecnica anche asciugare le siringhe. «Spumantino dolce?», chiese la praticante crocerossina, tanto per dir qualcosa. «Dolce e frizzante», confermò la suora che chissà dov’è adesso, chissà dov’è tutta la schiera di persone che la pensava come lei: «Il ministro, il presidente della Regione, il consiglio d’amministrazione fatto da tutti i bei nomi di Como, il Collegio dei Primari, tutti quelli che volete. Ma accanto ai malati ci siamo noi». E quel Natale del 1972, andò lei nell’ultima stanzetta, dove c’erano un unico letto di ferro, un unico respiro, un unico dolore che era cominciato dai polmoni e poi si era esteso ovunque,si era fatto morsa, si era fatto grido. Prese una garzina, bagnò le labbra secche con lo spumantino. «Buon Natale», disse e che altro poteva dire. Stava cambiando tutto e i cambiamenti sarebbero continuati, un ospedale grande come un paese sarebbe cresciuto, rimpicciolito, avrebbe avuto macchinari, specializzazioni, professionisti, sfide e problemi e quarant’anni dopo, ne avrebbero costruito uno nuovo, con un proposito: «Il malato al centro». E dove, il malato, sennò? Al centro delle strutture, dell’organizzazione, degli investimenti. E del cuore.

Maria Castelli

© RIPRODUZIONE RISERVATA