Quell'ultima notte
di Marinetti a Bellagio

In chiusura dell'anno del Futurismo, il critico Alberto Longatti ricostruisce, con molti aneddoti inediti, la fine del poeta, avvenuta nel dicembre 1944.

di Alberto Longatti

Il venerdì 1 dicembre 1944 a Bellagio fu una giornata fredda ma limpida, illuminata da un sole forte che ravvivava i colori verdazzurro del lago e incideva nel cielo senza nubi il profilo netto dei monti. A metà mattino, il sessantottenne Filippo Tommaso Marinetti con il cuore fiaccato dalla tremenda fatica della campagna di Russia dove aveva combattuto come ufficiale volontario, scese all’imbarcadero, dall’albergo "Splendido" dove aveva trovato rifugio, per ammirare lo spettacolo della natura. E per parecchio tempo stette assorto accanto alla moglie Benedetta che rispettava in silenzio i suoi pensieri, a fissare lago, monti, cielo, illanguiditi da una quiete serena. La guerra, in quel momento, pareva lontana, eppure il suo rombo funesto s’avvicinava all’eremo di pace sul Lario. Lo presentiva anche il fondatore del futurismo, che aveva trascorso una notte agitata. Svegliatosi all’alba aveva confidato alla moglie per l’ennesima volta l’angoscia che lo travagliava, la frana del suo ideale di primato italiano nel mondo, la sconfitta di un regime fantasma, la dissoluzione dello Stato, il massacro di tante giovani vite. Aveva cercato anche di trasferirla sulla carta, la pena per il suo Paese. L’energico marchigiano che l’aveva in cura, il dottor Amleto Venturi, medico condotto e commissario prefettizio, gli aveva raccontato di aver visto a Como, nel piazzale vicino alla stazione ferroviario di Nord Lago, fra pochi passanti frettolosi e intirizziti, un manipolo di giovanissime reclute della <+G_CORSIVO>X Mas<+G_TONDO> salire cantando su un camion che li doveva portare a Nettuno, in zona di guerra. Lo spettacolo di spensierata adolescenza e di disarmante coraggio commosse Venturi. Ebbi occasione di incontrare il medico nel suo studio milanese, nei primi anni del dopoguerra, ascoltandone la testimonianza. Venturi era uomo di polso che a Bellagio, pullulante di spie e di emissari stranieri, faceva da tramite tra fascisti, nazisti e partigiani cercando di evitare conflitti. Quella volta si avvicinò ai ragazzi per chiedere loro il perché di un gesto evidentemente disperato. E uno di loro rispose lapidariamente: «Ogni cervello è un mondo». Come a dire: ognuno si regola come crede. Anche se è un invito al suicidio, come nel caso di quei giovani che - lo si seppe in seguito - morirono tutti in un bombardamento.
La spavalderia della sfida colpì Marinetti, che era nello stato d’animo adatto per coglierne il significato esplicito di estremo sacrificio, con il frizzante entusiasmo giovanile che ne mitigava la gratuità. Per l’ultima volta, l’autore della "Conquista delle stelle" si sentì poeta, riversando in un breve poema, "Quarto d’ora di poesia della X Mas" in frasi rotte, veementi, rapide come singhiozzi, il dissidio fra desiderio di agire e freno dell’intelletto, esuberanza fisica e tatticismo, ripiego. Meglio la resa o l’autodistruzione? No, i "frenatori dal passo calcolato" meritavano soltanto il disprezzo. Avevano ragione quei giovani ad invocare "avanti autocarri" verso la morte. Anche lui sapeva di avere un piede nella fossa ed era finito quaggiù, ai confini con la Svizzera, solo per portare al sicuro la famiglia e le tre figlie, Vittoria, Ala e Luce, confidando nell’aiuto dell’amico Alberto Sartoris a Losanna, dopo un breve soggiorno all’albergo Rodrigo di Griante, ritenuto rischioso per l’aggirarsi nei dintorni di gruppi partigiani.
Nell’ovattata comodità dell’albergo bellagino, generosamente finanziato da un ammiratore, l’intelligente ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka, lo scrittore ingannava l’attesa dell’espatrio correggendo senza posa le sue opere e organizzando "quarti d’ora di poesia" con tutti i futuristi che gli riusciva di contattare, Paolo Buzzi nascosto a Perledo, l’aeropittore Tullio Crali, il critico Kaisserlian, il medico/poeta Pino Masnata, ma non lo scontroso Mario Sironi, ospite del Grand Hotel Villa Serbelloni. A tutti inviava cartoline patriottiche, invitando con disperato calore ad "Amare l’Italia", sempre, dovunque, malgrado le delusioni patite. A mezzogiorno di quel fatidico 1 dicembre si era lasciato andare con una signora belga ad una delle sue trascinanti, appassionate divagazioni sull’essenza della poesia; a sera aveva sostenuto con un giovane conoscente, Huberto Poletti Galimberti, una fluviale conversazione su cento argomenti, di politica, di arte, di storia, di costume.
La notte venne colto da una devastante crisi cardiaca. Si svegliò, all’1 e 20, con l’affanno: il cuore stava rallentando i suoi battiti. In quell’attimo supremo guardò negli occhi la moglie e lei gli rispose con un sorriso per confortarlo, sostenerlo nel gran salto verso il mistero. Fuori dalla stanza d’albergo splendeva la luna in un cielo terso, d’incantata purezza.
Quel che accadde dopo è soltanto arida cronaca. Una notte e un giorno di veglia, poi, lunedì 4, i funerali in una Bellagio «rigurgitante di facce pallide, gerarchi monturati, dagli sguardi erratili, dai passi fruscianti e circospetti», come li descrisse icasticamente Buzzi. Luigi Russolo, musicista e pittore futurista, tenne una commemorazione, nella basilica di San Giacomo si svolse l’officiatura funebre, quindi il feretro venne trasportato a Milano su un  automezzo militare. Il 5 migliaia di persone in mesto corteo accompagnarono la salma al Monumentale per la tumulazione. Tre mesi dopo le esequie Mondadori pubblicò, a tiratura limitata, il "Quarto d’ora della X Mas" con una commossa introduzione di Benedetta. Ma quasi nessuno se ne accorse, anche gli ultimi seguaci del sogno futurista erano immersi in un convulso presente, la Repubblica di Salò stava per dissolversi. Solo due mesi ancora e le acque del Lario, accarezzate dallo sguardo del morente Marinetti, si tinsero di sangue.        

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