La Dante "hard" conquista il Sociale
Sei chiamate in scena per "Le Pulle"

Applausi per il testo intenso ed estremo della regista della "Carmen" scaligera

b.faverio

Sei chiamate in scena e applausi calorosi hanno salutato, l'altra sera, sul palco del teatro Sociale, lo spettacolo "Le pulle. Operetta amorale", scritto e diretto da Emma Dante. Un successo che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il linguaggio provocatorio e lirico insieme della regista palermitana, capace di suscitare feroci polemiche tra i puristi (basterà ricordare l'uscita di Zeffirelli «Quella donna è il diavolo!», all'indomani della "Carmen" di Bizet alla Scala) è stato compreso ed apprezzato dal nostro pubblico. Non si può dire, per altro, che la Dante abbia l'abitudine di rendere le cose facili agli spettatori e ancor prima agli interpreti. Chi conosce il suo teatro ne sa prevedere le asperità, i linguaggi scabri e feroci, che nel dialetto, ma non solo, ricercano sonorità drammatiche, la fisicità disarticolata e disturbante, il tono alto e aspro che pervade anche i momenti di poesia. Così era stato per "mPalermu", per "Mishelle di sant'Oliva" e per tutti gli altri allestimenti firmati dalla regista. Con "Le pulle" (in lingua palermitana strettissima "Le puttane" e qui, precisamente, dei transessuali) prosegue l'affresco di un mondo di ultimi e reietti. Figure emarginate per la loro sessualità diversa e scandalosa, da possedere in segreto, senza amore, chiuse in un soffocante bordello tappezzato in rosso cremisi damascato, con quinte-ghigliottina che cadono a ritmare l'alternarsi delle cinque storie. Non più, al centro dell'indagine, la famiglia vista dall'autrice come cellula di un Sud oppressivo e retrivo, ma un succedaneo di essa, un nucleo di umanità dolente, di storie, di violenza, di ferite più o meno nascoste, che anelano a svelarsi, per abbandonare l'ombra e il rifiuto sociale. Si narrano vite ai margini, da cantare con toni onirici e esasperatamente grotteschi, che ostentano sesso e fisicità drammatica, in una sfida senza gioia ai benpensanti. Non a caso, per raccontare la storia delle cinque “pulle”, Dante sceglie la dimensione del sogno, tra l'incubo di una quotidianità dolorosa e il desiderio di una vita nuova e “normale”. Qui le fate, bambole meccaniche che si muovono come impazzite e disarticolate, sotto il comando di Mab, loro levatrice, sono incaricate di trasfondere la propria parte femminile nei corpi maschili. È una parata di nudità esposte, di falli, nel delirio di una danza frenetica e spezzata. Il racconto poi si manifesta tra parola e canto, per il “piccolo musical stonato”, voluto dalla regista, sempre nella lingua popolare che è carne e sangue. Di fronte al pubblico, si snoda un “rosario” profano di soprusi, maltrattamenti e libertà negate. Rosy, Sara, Ata, Moira e Stellina si svelano senza pudore, rovesciando sulla platea le umili vite, in cui lo scandalo sta solo negli occhi di chi guarda e suona come un atto d'accusa. Ancora una volta, fino all'intensissimo finale, l'estro creativo di Emma Dante si dimostra atto allo scopo, anche se qualche riserva nel giudizio parte proprio da una forse eccessiva ostentazione tra bambole gonfiabili e falli di plastica. Un'ostentazione che nulla aggiunge alla pietas che emerge dai potenti personaggi e che potrebbe, al contrario, indulgere nello stereotipo che è tanto nemico della doverosa lotta per i diritti civili di omosessuali e transessuali. Applausi convinti, per un cast coraggioso e ben calato nel ruolo.
Sara Cerrato

Cultura e Spettacoli

Martedì 16 Febbraio 2010

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