Quel film dell'orrore
nella quiete dell'abbazia

A 65 anni dal delitto di Vertemate, la storica Elena D'Ambrosio ricostruisce il macabro episodio, attraverso la cronaca dei quotidiani dell'epoca.

di Elena D'Ambrosio

Mai come in questi ultimi tempi la nostra provincia ha conquistato la ribalta della cronaca nazionale per una serie di delitti di estrema efferatezza. Si è concluso un mese fa il processo d'appello per la strage di Erba che ha confermato la condanna all'ergastolo per i coniugi Romano, mentre sono ormai alla fase conclusiva le indagini per fare pienamente chiarezza sull'omicidio del benzinaio Brambilla.
Andando a ritroso nel tempo, proprio sessantacinque anni fa, nel maggio del 1945, fu commesso un atroce delitto all'ombra dell'abbazia di Vertemate, passata da oltre un secolo in mani private e in quel periodo di proprietà di un certo ingegner Gallioli. Il trentaseienne Pietro Parati, di Cremona, giunto da poco tempo a Vertemate con la moglie, Giovanna Cremonesi, per lavorare come giardiniere alla "Badia" e qui domiciliato, uccise la consorte e, fatto ancor più terribile, tagliò a pezzi il suo corpo, seppellendo poi i resti nel giardino della proprietà. L'omicidio fu scoperto dopo un paio di mesi e per l'uomo, che pensava di farla franca, si spalancarono le porte del carcere. Un delitto del genere in altri momenti avrebbe riempito le colonne dei giornali, tuttavia i fatti e i problemi immediatamente successivi alla Liberazione fecero passare quasi sotto silenzio la notizia.
Parati comparve in giudizio il 22 giugno 1946, in un'aula affollatissima (il pubblico era prevalentemente femminile), ma la Corte d'Assise di Como ordinò il ricovero dell'omicida nel manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere per sottoporlo a perizia psichiatrica. Il nuovo processo fu, infine, celebrato nel novembre dell'anno successivo. La stampa questa volta si occupò diffusamente della triste vicenda, che ora ricostruiamo in dettaglio attraverso i vari articoli pubblicati tra il 1946 e il 1947. La vita matrimoniale della coppia, che tra l'altro non aveva figli, fu sin dall'inizio segnata da continue discussioni, litigi e gelosie (pare che l'uomo non fosse uno stinco di santo soprattutto con le donne) e la situazione non cambiò anche dopo il trasferimento a Vertemate. Il delitto fu causato da futili motivi.
La sera del 13 maggio la Cremonesi uscì con un'amica. Al suo ritorno scoppiò una lite furibonda tra i due coniugi a causa del volume eccessivo della radio che la donna aveva accesa. Il violento battibecco come era nato, presto si spense e la coppia andò a dormire apparentemente rappacificata. Invece, il mattino seguente la discussione ricominciò con toni sempre più accesi. Quel "senso di pace e di tranquillità" che emanava ancora quel luogo, si trasformò nel giro di un istante in orrore. Ad un certo punto la donna in preda all'ira lanciò una pantofola contro il marito, colpendolo al viso. L'uomo a sua volta prese uno scarpone chiodato e lo scagliò verso la moglie che minacciava di andarsene di casa. Parati, accecato dalla rabbia, afferrò la cintura della camicia da notte della donna e la strinse forte intorno al suo collo. Essa cadde a terra, sul pavimento della camera da letto, priva di sensi.
Sopraffatto dal suo gesto e convinto di averla uccisa, non pensò minimamente di costituirsi ma, armatosi di una roncola, una mezzaluna e due coltellacci da cucina, dopo averla decapitata ancora «palpitante di vita» (così fu accertato in seguito), iniziò a sezionare il cadavere. Il giardiniere fece la "macabra operazione" con estrema freddezza in più riprese, nei ritagli di tempo. Dopo la testa, fu il turno delle braccia, poi le gambe (tagliate ciascuna in due parti) e il tronco. «Non sentivo più umanità, mi sentivo come un lupo», confesserà durante l'interrogatorio. L'uomo, accampando delle scuse, ordinò ai suoi aiutanti di scavare tre fosse in giardino e la sera, mentre gli abitanti della "Badia" erano occupati a cenare, seppellì i poveri resti della moglie che aveva stipati in una cesta. Una volta lavato il sangue che imbrattava il pavimento della camera da letto - la "scena del crimine", si direbbe oggi - e imbiancata con della calce la zoccolatura del muro, l'uxoricida raccontò ai familiari della donna e al suo datore di lavoro che la consorte era fuggita di casa con un presunto amante. Tutto sembrava filare liscio, nonostante la perplessità dei parenti della donna. Tuttavia Parati commise l'imprudenza di regalare alla cognata gli abiti e la biancheria della moglie, fra cui una coperta. Fu quest'ultimo dono che portò alla scoperta del delitto.
Infatti, l'uomo non si avvide della presenza di alcune macchie di sangue. Se ne accorsero, invece, i parenti che, insospettiti, iniziarono a tempestarlo di domande. Di fronte alle sue risposte ambigue, l'uomo fu denunciato alle autorità. A ormai due mesi dall'accaduto, mentre erano iniziate le indagini, Parati decideva di costituirsi, confessando il suo feroce delitto. Il processo del novembre 1947 ebbe, come abbiamo già sottolineato, una grande risonanza. Il giardiniere fu difeso dagli avvocati Orsenigo e Rebuschini e per tutto il tempo del dibattimento - da cui emerse il ritratto di un uomo di «indole cattiva» - rimase sempre «come assente». Il processo si concluse con la condanna di Parati a 25 anni di carcere (22 anni per l'omicidio, tre anni per il vilipendio del cadavere) poiché gli fu riconosciuta l'attenuante della semi-infermità mentale.
Ritenuto "socialmente pericoloso", la sentenza ordinava inoltre il suo internamento in manicomio una volta scontata la pena. Calò così il sipario su quello che può essere considerato, usando le parole del giornale "Il Popolo comasco", «uno fra i più tremendi delitti che mente umana possa concepire».

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