Maria Luisa e Montale,
"sodalizio di 14 anni"

Intervista esclusiva alla poetessa e critico letterario Maria Luisa Spaziani, che ha vinto il Premio Pavese, assegnato sabato 28 agosto in Piemonte. Con "La Provincia" parla dell'amicizia profonda che la legò al Nobel, anticipando un libro che uscirà a dicembre. Ma la poesia è grande protagonista anche di Parolario, il festival letterario apertosi a Como, in piazza Cavour: guarda il video e l'intervista a Pietro Berra, curatore della sezione poetica della kermesse.

di Laura Di Corcia

Non le piace parlare di poetesse, perché in questo modo si rischia di «emarginare» le espressioni poetiche femminili, quasi non fossero poesia all'altezza di quella vera, prodotta dagli uomini. È decisa su questo punto, Maria Luisa Spaziani, intervistata da "La Provincia" a margine di un incontro importante, la ventisettesima edizione del Premio Cesare Pavese ieri a Santo Stefano Belbo in Provincia di Cuneo. Donna schietta, ma cortese, Maria Luisa Spaziani è quasi d'altri tempi.
Sin dai giovanili esordi ("Le acque del sabato", pubblicato nel 1954), l'autrice torinese ha saputo tessere una poesia concreta che riesce ad aprirsi alla stratificazione polisemica ed epistemologica del simbolo. Movenze, queste, che percorrono tutte (o quasi) le sue raccolte poetiche. Le abbiamo posto alcune domande.

Iniziamo da Cesare Pavese, cui questo premio che le hanno assegnato fa onore, ricordando i sessant'anni dalla morte... la sua poesia è stata per lei fonte di ispirazione?

Beh, sa, io e Cesare siamo stati molto amici, non poteva non esserci una vicinanza di opere. Ma avevamo due ideologie diverse: io sono ungarettiana, post-simbolista, montaliana; lui era americaneggiante, guardava con ammirazione alla beat generation.

Ma nella produzione tarda anche Pavese si discosta da quel modo di fare poesia; penso a raccolte come “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, per esempio...

Beh sì, forse è cambiato anche lui; succede nelle guerre e nelle rivoluzioni. Sa come si fa a fare un braccialetto d'oro? Si usa anche una lega minore, altrimenti il braccialetto sarebbe troppo fragile. Facciamo anche noi così, con la poesia. Non so se mi sono spiegata...

E invece con Montale ebbe un rapporto di amicizia molto intenso...

Amo chiamarlo sodalizio, una parola antica bellissima. Sodalizio vuol dire unione affettuosa profonda in vista di qualcos'altro, in questo caso la poesia. Questo rapporto è durato quattordici anni e prima di Natale uscirà un mio romanzetto che parlerà proprio del legame fra Montale e la Volpe, che sarei io.

Su questo rapporto ha indagato molto anche una delle più grandi filologhe del secondo Novecento, Maria Corti, che soggiornò a Como per qualche tempo insegnando in una scuola media.

È stata una grande critica letteraria. Quando è venuta a conoscenza di questo carteggio ha subito detto che a volte la letteratura minore riserva sorprese incredibili, perché lì gli scrittori si tolgono tutte le maschere e confessano cose che nelle opere vengono sottaciute.

Giovanna D'Arco è un personaggio che l'ha sempre affascinata, a tal punto da scriverci un poema. Cosa ha da insegnare questa donna alle nostre donne e al femminismo?

Moltissimo. È stato l'unico personaggio femminile che abbia incarnato la santità e la guerra. Giovanna d'Arco non sapeva cosa fosse il femminismo, eppure lo incarnava nel suo significato più elevato. Femminismo non è, come pensano gli sciocchi, una lotta agli uomini; altrimenti, se passassero al potere le donne, ci sarebbe comunque discriminazione. Essere femministe vuol dire realizzarsi come donne in modo individuale, scegliere il proprio destino e formulare le proprie opinioni senza dipendere dai padri o dai mariti.

E noi donne moderne, ce l'abbiamo fatta?

Sì, direi di sì, abbiamo raggiunto l'ottanta per cento degli obiettivi. Mancano ancora cose importanti, per esempio non in tutti i Paesi gli stipendi sono uguali. A volte poi si creano situazioni psicologiche tali per cui l'uomo si senta ancora superiore.

Che dire della situazione italiana?

Siamo messi bene. Se penso a cos'era la Sicilia prima del Sessantotto, quando ricevetti la cattedra... Dopo il Sessantotto ci sono stati molti cambiamenti, in meglio e in peggio.

La poesia non gode di molto seguito oggigiorno. Eppure, fra tante poetesse contemporanee, lei ha saputo imporsi. Merito anche della tragica biografia?

Sì, forse. Alda Merini l'ho conosciuta quando aveva sedici anni, in un bar. Era bellissima, sembrava una Madonna senese. Mi disse: “Faccio la dattilografa ma sono un poeta”. Questo mi colpì molto: il fatto che usasse il sostantivo maschile “poeta”. Il giorno dopo la reincontrai e mi consegnò “Il gobbo”, la sua poesia più riuscita, secondo me. Ha scritto molto, troppo. Buttava giù le poesie, ma se si raccogliessero i suoi testi in un'antologia, allora ci renderemmo conto di trovarci di fronte ad un grande poeta.

Nel suo caso, ci dica: quanto conta l'ispirazione e quanto, invece, il tanto osannato labor limae?

Non si sa, solo Dio può dirlo. A volte le poesie nascono già perfettamente vestite. Di cosa si tratta? Di ispirazione? O è ancora labor limae, ma introiettato grazie alle numerose letture? Chi lo sa? La poesia è anche mistero, non bisogna per forza risolverlo.

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