Quella sosta al museo
in compagnia di Peppo

Si conclude oggi, con un ricordo di Giuseppe Pontiggia, la serie di appuntamenti con personalità della cultura contemporanea raccontate, in prima persona, da quattro "firme" de «La Provincia» (Laurana Berra, scrittrice; Fulvio Panzeri, critico, saggista e poeta; Livia Porta, pediatra e Giorgio Gandola, direttore del nostro quotidiano).

di Livia Porta

Ci sono incontri in una vita destinati a lasciare segni profondi. L'alchimia della memoria che li fa emergere a tratti, lì rivela ogni volta come esperienze emotivamente formative. Certo, le letture e lo studio ti fanno crescere e quanto di infinitesimo rimane dentro di te diventa te stesso, la tua personalità, il tuo modo di rapportarti agli altri. Ma l'incontro con persone che hanno qualcosa da dire e lo apprendi dalla loro viva voce, da un loro sguardo, da una stretta di mano lascia tracce ben più immediate ed indelebili. Mi è capitato infinite volte. Non solo incontrando persone del mondo dell'arte, della scienza, della cultura in genere, ma anche persone che nonostante vite umili e difficili sanno trasmettere forza e serenità.
Giuseppe Pontiggia: un incontro memorabile avvenuto non molto tempo prima della sua morte. Una voce che mi era già giunta attraverso la lettura di alcune sue opere e che si è perfettamente fusa con quella reale, roca, affaticata, degli ultimi anni della sua vita. In queste righe parlerò di Peppo Pontiggia come l'ho conosciuto io, durante incontri informali,  perlopiù a cena, e solo una volta, comunque sempre in forma squisitamente amicale, quando gli ho chiesto un intervento per il convegno annuale degli Amici dei Musei Italiani, a Monza, nel 2001. Partirò proprio da qui.
È dalle piccole cose che si valuta l'impegno e la serietà di un individuo e Peppo, scrittore affermato in ambito nazionale, aderì a questa mia richiesta, dandole peso e molta attenzione.
Il Convegno aveva come titolo "Il Museo comunica...", coordinatore Darko Pandakovic, organizzatori i membri del Consiglio Direttivo degli Amici dei Musei di Monza. Erano i primi anni in cui i Musei italiani avevano capito l'importanza di togliere la polvere, reale e metaforica, dalle loro collezioni. Il Guggenheim di Bilbao aveva da poco aperto i suoi battenti, imponendo in modo rivoluzionario, le inedite sue forme architettoniche dovute al genio di Gehry, destinate a far scuola. Quel "comunica" ci pareva allora di grande attualità: come speranza di un'era nuova, in cui il museo potesse diventare uno dei protagonisti della vita culturale anche nel nostro paese. E in qualche modo nasceva un'era nuova, non scevra da polemiche ed eccessi - il museo come luogo di feste, di sfilate, di performance non sempre artistiche - , comunque riuscendo in pochi anni a catturare un numero sempre maggiore di visitatori, soprattutto in occasione di mostre temporanee.
Il Convegno, dicevo: dopo gli interventi degli addetti ai lavori - sulle architetture, gli allestimenti, le luci.... - un preziosissimo cammeo: quello di Peppo che aveva il compito di parlare dei momenti di sosta durante le visite museali. Con la zampata del grande scrittore che sa essere grave ma anche lieve come una piuma, Peppo ci ha regalato momenti di grandissimo divertimento: una sosta non solo per gli ipotetici visitatori di un ipotetico museo, ma anche per noi chiusi da alcune ore in uno spazio convegnistico. Protagonisti piedi dolenti, caviglie gonfie, bisogno di silenzio - soprattutto nelle visite guidate - teste pesanti, corpi in semi-disfacimento alla ricerca affannosa di un bicchiere d'acqua, di un caffè, di un genere di conforto. Peppo con grandissimo senso dell'umorismo, attribuiva a poltrone comode, a bar accoglienti, a bagni puliti la stessa dignità attribuita alle collezioni museali. Descrizione vivacissima di fatiche fisiche e mentali, esasperate fino al parossismo, capaci di creare momenti di reale comicità. Un grande pezzo di bravura: chissà quanti dei presenti si sono riconosciuti in questa impietosa fotografia. Non posso dimenticare un'altra occasione di incontro: una cena con la moglie di Peppo, Lucia, e con la mia mamma. Lucia, minuta, sottile, scompariva quasi accanto a suo marito alto e corpulento. Peppo, parlando, cercava continuamente i suoi occhi, e si capiva che tra i due il rapporto era strettissimo.  Mentre nel suo libro "Nato due volte" le pagine accompagnano gradualmente attraverso la sofferta metamorfosi di un padre che arriva ad accettare le problematiche di un figlio in difficoltà, la sua viva voce ne parlava quasi brutalmente, come chi ha fretta di liberarsi di una situazione che ogni volta suscita grande dolore. Poco tempo fa, ascoltando in auto un programma di radio tre, ho risentito la voce di Peppo Pontiggia, in una sua lezione di scrittura creativa di qualche anno fa. Non sono riuscita a prestare attenzione al suo dire: il suono della sua voce, già roca ed affaticata, mi emozionò profondamente, come se avessi lui seduto accanto a me.

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