Francesca e l'amore
Passione infernale

Per gentile concessione, pubblichiamo un ampio stralcio della conferenza sul V Canto dell'Inferno che ha aperto la stagione degli incontri dell'associazione «Dante Alighieri» di Como

Il canto dell'amore; il canto della passione che oltrepassa il confine della morte; il canto della nobile sensibilità; il canto di due innamorati eternamente uniti: queste alcune suggestioni di lettura di chi si accosta a questo celebre canto. E sono impressioni non proprio ingenue se anche illustri lettori le condivisero. Foscolo, per esempio scrisse: «La colpa è purificata dall'ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que' versi la compassione pare l'unica Musa»; spingendosi fino ad affermare che «senza pur dirlo, il poeta lascia sentire come la giustizia divina era clemente a que' miseri amanti, da che fra' tormenti Infernali, concedeva ad essi d'amarsi eternamente indivisi». E un altro illustre lettore, anzi il più illustre dell'Ottocento, Francesco De Sanctis, scriveva: «Francesca niente dissimula, niente ricopre. Confessa con una perfetta candidezza il suo amore; né se ne duole, né se ne pente, né cerca circostanze attenuanti e non si pone ad argomentare contro di Dio. - Paolo mi ha amata, perché io ero bella, ed io l'ho amato perché mi compiaceva d'essere amata, e sentivo piacere del piacere di lui -. (...) Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà. Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica e un pudore che rivergina; talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernere se hai innanzi la colpevole Francesca o l'innocente Giulietta».
Ma è veramente così? Certamente no, visto che Paolo e Francesca sono condannati all'inferno e il loro amore li ha portati alla dannazione, ad essere per sempre trascinati dalla bufera che mai non resta, pena comune di tutti i lussuriosi. Perché allora quell'episodio continua a piacere e a lasciare sedimentate nella memoria anche suggestioni deformanti? Nell'intelaiatura della "Divina Commedia" dove nulla è fuori posto - nemmeno una virgola, nemmeno un sassolino - Dante ha saputo costruire un racconto che affascina. Ma non è possibile mettere esattamente a fuoco la valenza poetica della tragica esperienza d'amore e morte dei due amanti riminesi, se non leggendo la loro vicenda sullo sfondo ambientale e problematico delineato nella prima parte del canto.
Entriamo dunque nel mistero di questo canto.
(...) L'attenzione di Dante si ferma su un gruppo di anime che avanzano in ordine lineare, invece che in tumultuosa calca, come le altre (...). Tra esse ne sono individuate e brevemente presentate di scorcio, o soltanto nominate, alcune di personaggi illustri: grandi amanti della tradizione classica e medievale, donne e uomini accomunati in questa rassegna dalla morte violenta per causa d'amore, figure tutte di grande spicco nel panorama culturale del Medioevo. Sono (vv. 52 sgg.) Semiramide, la famigerata regina degli Assiri che «A vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito fé licito in sua legge»; Didone, la regina di Cartagine che «s'ancise amorosa» quando Enea l'abbandonò per seguire il proprio destino, «e ruppe fede al cener di Sicheo»; e poi Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano. Comprendendo anche Paolo e Francesca i personaggi sono 9, non a caso, forse, il numero di Beatrice. Tutti sono morti per amore. Infatti Semiramide, Cleopatra e Didone si suicidarono. Dante credeva che Elena fosse morta nella guerra di Troia. Paride fu ucciso da Filottete e Achille da Paride. Tristano fu ucciso dallo zio il re Marco.
Con attento studio, sono messi insieme personaggi il cui nome la tradizione ha trasmesso legato a fama di corruzione e di lascivia sfrenata - Semiramide, Cleopatra, bollate con il titolo di lussuriose - e personaggi dalla reputazione "positiva", come Didone, la cui presenza in quella sede provocherà la nota aspra reazione di Petrarca.
Ma la presenza di questi personaggi - Didone, appunto, Achille - permette a Dante di usare non impropriamente, dopo e insieme alla parola lussuria, la parola amore, che, introdotta prima con cautela nella forma aggettivale "amoroso", viene ripetuta in questo canto ben dieci volte nell'arco di soli sessantotto versi (dal v. 61 al v. 128), assumendo evidentemente una rilevanza tutta particolare nel contesto in cui si colloca. La sequenza è: "lussuria" (v. 55), "amorosa" (v. 61), "lussuriosa" (v. 63), "amore" (vv. 66, 69, 78, 100, 103, 106, 119, 125, 128), seguiti infine dal participio sostantivato "amante", al v. 134. Come ha scritto Malato: «l'insistenza sulla parola "amore", nel canto V, introdotta quasi con circospezione e poi ripetuta con incalzante iterazione, avrà a sua volta lo scopo di proporre quella come parola chiave finalizzata a una specifica connotazione semantica di tutto il quadro». La scelta certo non fortuita di personaggi illustri, tutti suicidi o uccisi per amore, ha la funzione di esercitare una forte suggestione sul poeta (vv. 70-72): "Poscia ch'io ebbi '1 mio dottore udito/nomar le donne antiche e ' cavalieri, /pietà mi giunse, e fui quasi smarrito".
Ma qui avviene la svolta. Dante avrebbe la possibilità di dialogare con alcuni dei personaggi mitici della letteratura d'amore. Tuttavia la sua scelta è diversa: vuole parlare con due amanti sconosciuti. È un luogo capitale della letteratura italiana: qui si crea il primo mito poetico della nostra letteratura. E non a caso è un mito che si iscrive nella dimensione dell'amore. La prima segnalazione («quei due che 'nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggieri»: vv. 74-75) li distingue nella folla degli spiriti trascinati dal turbine infernale non soltanto perché vanno "'nsieme" - ciò che non è escluso in assoluto possa ripetersi di altri -, ma perché paiono "leggieri" al vento: una qualità che esprime senza dichiararla, come acutamente ha visto Pagliaro, la loro condizione di amanti ancora nel vivo della passione, ma anche un probabile aggravio della pena, visto che essere leggeri alla tempesta comporta un danno peggiore. All'affettuosa richiesta di Dante, le anime accorrono (vv. 82-85): "Quali colombe, dal disio chiamate,/ con l'ali alzate e ferme al dolce nido/ vegnon per l'aere dal voler portate;/ cotali uscir de la schiera ov'è Dido".
Già nella bella similitudine delle colombe, ripresa da Virgilio ma caricata di nuovi significati dalla tradizione iconografica e letteraria cristiana, in cui spesso i colombi compaiono come simbolo di candore, di dolcezza, di amore puro, si viene delineando un profilo gentile e delicato dei due personaggi. La scelta delle immagini e delle parole («dal disio chiamate», «dolce nido», «per l'aere [...] portate») è tutta in funzione di una certa impressione che il poeta vuole provocare nel lettore. Anche il riferimento a Didone per indicare la "schiera" dalla quale si staccano le due anime, cioè a quello che la tradizione raccomanda come il più nobile e pietoso tra i personaggi sopra ricordati, vuol proporre un accostamento in qualche modo nobilitante. E questa impressione di delicatezza, di nobiltà di portamento e di sentire, viene confermata dalle prime parole che Francesca rivolge a Dante («O animal grazioso e benigno»), che tradiscono un'anima gentile, appassionata e dolente, consapevole della propria miseria e tuttavia capace di uno slancio di gratitudine verso l'ignoto visitatore solo perché nel suo «affettuoso grido» ha sentito vibrare un sentimento di pietà per lei sconosciuto (vv. 88-93): "O animal grazioso e benigno/ che visitando vai per l'aere perso/ noi che tignemmo il mondo di sanguigno,/ se fosse amico il re de l'universo,/ noi pregheremmo lui de la tua pace,/ poi c'hai pietà del nostro mal perverso".
È però un periodo ipotetico della irrealtà. Ma ciò che conta è che Francesca vorrebbe pregare per chiedere per Dante ciò che lei - eternamente trascinata dalla bufera - più di ogni altra cosa desidera: la pace, la quiete. Francesca ha riconosciuto dunque nell'«affettuoso grido» di Dante non soltanto una generica disponibilità alla comprensione e alla pietà, ma una più profonda "sintonia", per così dire, una sensibilità che ella sente corrispondente alla sua, la comune appartenenza a una civiltà letteraria - quella della poesia cortese e, anche, stilnovistica -, di cui tra poco ella stessa darà una potente rappresentazione, nella quale pure il poeta verrà coinvolto. Il fragore della tempesta viene per un breve momento sospeso (v. 96: «mentre che '1 vento, come fa, ci tace»). La disponibilità di Francesca a "udire" e "parlare" è totale, e sùbito, senza neanche attendere la domanda, ella si presenta (vv. 97-107):
"Siede la terra dove nata fui/ su la marina dove 'l Po discende/ per aver pace co' seguaci sui./ Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,/ prese costui de la bella persona,/ che mi fu tolta, e '1 modo ancor m'offende./ Amor, ch'a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m'abbandona./ Amor condusse noi ad una morte./ Caina attende chi a vita ci spense".
Sono forse i versi più famosi del canto e dell'intera Commedia, sui quali sono stati versati dai commentatori i proverbiali fiumi d'inchiostro - Riprendendo temi e motivi ampiamente accreditati nella tradizione cortese e stilnovistica, addirittura teorizzati e in certo modo istituzionalizzati in trattati, come il famigerato De amore di Andrea Cappellano - e variamente ribaditi anche da Dante in alcune rime e altrove -, Francesca comincia con l'enunciare una "legge": «Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende». L'iniziativa, e perciò la responsabilità, non è dunque dell'uno o l'altro degli amanti, ma di Amore. E una seconda: «Amor, ch'a nullo amato amar perdona»: è quello stesso Amore, ancora, che non consente ad alcuno, che sia amato, di non corrispondere all'amante. L'esegesi ha ricostruito con molta precisione la fitta trama di riferimenti letterali e dottrinali che è sottesa a questi enunciati: dal guinizzelliano famosissimo incipit, «Al cor gentil rempaira sempre amore», "coniugato" con il v. 11 della stessa canzone, iniziale della seconda stanza, «Foco d'amore in gentil cor s'aprende», al dantesco «Amore e '1 cor gentil sono una cosa» (Vita nuova, XX 3-5; Rime, XVI 1). Ma al di là dei riscontri testuali, più o meno puntuali e precisi, che sono stati fin qui registrati, importa rilevare che tutta una civiltà letteraria: è la civiltà cortese, quella che ha assunto come fondamentale l'esperienza amorosa vissuta in modo totalizzante.
Per Francesca, infatti, amore è una forza naturale irresistibile e irrefrenabile, che si manifesta in modo improvviso («ratto») e travolgente («s'apprende», «prese»): questo amore è incontrollabile, mentre l'uomo ha la possibilità di controllarlo tramite la parte più nobile di se stesso, la ragione. (...) Sono certamente parole piene di passione, che portano in filigrana un preciso codice culturale e letterario, è sì un discorso struggente - come tanti interpreti hanno letto, così da venirne sviati -, ma è anche l'esito di una concezione sbagliata che porta alla dannazione (...). Al centro esatto della Commedia Dante riserva dunque la sua risposta: la concezione cristiana dell'amore che si fonda sul principio dell'anima, creata una, unica e irripetibile dal suo creatore, un Dio che, come si è già detto, per amore si volge a tanta arte di natura, un Padre che la «vagheggia prima che sia» (Purg., XVI 85-86), cosicché questa alta e nobile individualità, che è realtà personale, è padrona di sé, ed è soprattutto libera da ogni forma di determinismo, astrale e psicologico.

Donato Pirovano

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