Il commiato di Linati
in morte di Carlo Dossi

Lo scrittore comasco tenne una conferenza al Carducci pochi mesi dopo la morte dell'amico che viveva a Cardina

Carlo Dossi era morto da una decina di giorni, nel novembre 1910, quando Gian Pietro Lucini, erede spirituale dello scrittore, inviò una lettera a Carlo Linati per invitarlo a parlare in pubblico dell'opera dossiana. Indicò anche il luogo adatto, la sala conferenze dell'istituto Carducci nella nuova, smagliante sede inaugurata un paio di mesi prima. Bisognava chiederne l'uso ad Enrico Musa, presidente e fondatore di quell'ente culturale nato per educare il popolo.
Linati, che aveva pubblicato un necrologio del Dossi su La Provincia di Como assai apprezzato da Lucini, cercò di schermirsi. È vero, rispose a stretto giro di posta, conosco bene gli scritti dossiani che mi aveva fatto conoscere Gustavo Botta, eminenza grigia dell'intellettualità milanese; ma non sono un oratore, «temo di non riuscire efficace e degno» nel trattare un tema tutt'altro che facile davanti a un uditorio, come quello comasco, che «non è certo esperto e preparato come quello milanese». Semmai, proseguiva l'autore di "A vento e sole", potrei cimentarmi in una lettura di alcuni passi significativi della prosa dossiana.
Ma Lucini insiste, e Linati cede. Segue uno scambio di lettere con il Musa, che acconsente di buon grado alla richiesta, e con il segretario del Carducci Giuseppe Bedetti, che sposta la data della conferenza al gennaio 1911, per consentire nel frattempo di soddisfare le esigenze di un calendario già saturo di prenotazioni fino a Natale. Meglio, perché Linati si deve preparare, attingendo notizie da una preziosa biografia di Lucini ancora inedita, "L'ora topica di Carlo Dossi" (uscirà soltanto alla fine del gennaio 1911, grazie all'intervento di un mecenate, il conte Alessandro Casati) che il mistagogo di Breglia gli invia. Ma Linati non si fida della sua preparazione e sottopone lo scritto che man mano va elaborando perché l'amico lo controlli, lo vagli, lo corregga, lo ampli «con quelle aggiunte e considerazioni che crederai opportune». Così avviene: Lucini suggerisce anche di citare qualche partecipazione del Dossi alla vita locale, fra cui l'iscrizione alla Società Archeologica e il contributo per i restauri della pericolante torre del Baradello.
La conferenza ebbe luogo il 21 gennaio 1911, e malgrado le negative previsioni del Linati sul pubblico, che prevedeva fosse «un ris e verz dei più disparati temperamenti e classi e condizioni» finì con un successo persino clamoroso, dovuto certo anche alla curiosità per un evento particolare in un ambiente del tutto nuovo. Va poi aggiunto che il Dossi era diventato popolare in città non certo per le sue opere, ma per quel gran castello turrito, il Dosso Pisani, che stava crescendo a Cardina come un candido fungo nel bosco e che i comaschi avevano avuto agio di ammirare dalla convalle con il naso in aria. A quel lussuoso eremo Linati fa appena un cenno, ma si diffonde sui pregi degli scritti dossiani e anche sulla figura dell'autore nelle sue varie attività, di archeologo, diplomatico, esperto d'arte, collezionista, oltre che di letterato. Non senza denunciare, all'inizio, il suo debito con Lucini, che ben più degnamente «avrebbe dovuto trovarsi al suo posto» in quel momento se non fosse stato «troppo schivo e contristato dalla dipartita dell'amico e maestro suo»: oltre che - ma questo ovviamente l'oratore non lo dice - impresentabile per il suo aspetto, gobbo e privo di una gamba per la terribile malattia che gli rodeva le ossa.
Nel corso della sua relazione, Linati passa in rassegna con puntigliosa precisione tutti gli aspetti della poliedrica personalità del Dossi, valendosi dell'apporto luciniano in letteratura per definire le caratteristiche di uno stile raffinato al punto tale da rendere «le più minute e labili sfumature della coscienza» con un tono «fra il sarcastico e il sentimentale, tra lo scettico e l'entusiasta» servendosi di «parole inusitate e vernacole che inzeppano il discorso» oltre che di «accostamenti insoliti di idee e di immagini». Un aristocratico, in definitiva, destinato per la sua «nervosa modernità» capace di esprimere «lo spasimo della gioia e dell'angoscia violentemente condensate in un palpito solo» ad essere scarsamente apprezzato «dal lettore comune». Lucini morì nel 1914 cinquantenne, distrutto dalla tubercolosi ossea. Linati lo ricordò sempre con affetto, accomunandolo al Dossi se non altro per l'appartenenza a quella "linea lombarda" di scrittori che, secondo lui, non avevano la fortuna dalla loro parte, quantomeno non erano stati favoriti dalla fama che si meritavano. Il tempo non gli ha dato ragione che in parte. Certo non per il Dossi, che ebbe l'occasione di rileggere scegliendo alcuni suoi lavori per un'antologia edita da Garzanti nel 1944, assolvendo un compito affidatogli da un critico e giornalista illustre, Pietro Pancrazi. Nell'introduzione al volume, senza più citare l'influenza luciniana dalla quale mostra di essersi allontanato, lo scrittore comasco liquida l'eccellenza linguistica del Dossi, chiamandola sbrigativamente «pittorico alambicco», con il lodare non l'originalità del fraseggiare ma la spendita «non cervellotica» di parole «piene di gusto, di tradizione, foderate da un umorismo di buona lega». Soprattutto gli riconosce il merito di aver «dato lo scrollo più pericoloso alla supremazia del linguaggio fiorentino» innestandovi la «sanità lombarda del classico». Ma non era proprio quanto stava cercando lui stesso di raggiungere, Carlo Linati: una rinnovata purezza di dettato, libera da «cianciafruscole» toscaneggianti? Lo mostrano le pagine dei suoi ultimi libri, dalle "Passeggiate lariane" alla "Milano d'allora", composte negli anni di guerra, allo stesso modo del recupero di un Dossi sempre ammirato e però considerato alla lontana, mescolato nel fiero manipolo di lombardi «fraintesi» da un pubblico che vuole scrittori «petulanti, sensuali, tascabili» nell'Italia «eterna baccante».

Alberto Longatti

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