Fabio Geda racconta a Erba
l'incredibile odissea di Enaiat

Un bambino afghano sballottato in giro per il mondo, fino a che viene adottato da una famiglia italiana. E' la storia vera che ha commosso i lettori di "Nel mare ci sono i coccodrilli", ottenendo anche il prestigioso premio "Libro dell'Anno di Fahrenheit 2010". Il 14 dicembre alle 21 Geda sarà ospite alla Libreria Colombre di Erba. Se intanto volete saperne di più su Enaiat, ascoltate l'intervista di Fabio Fazio al giovane, oggi ventenne.

di Filippo Pozzoli

«Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami la tua vita». Questo, dell'Afghanistan, lo sanno in pochi, quei pochi che non si rassegnano all'idea di una terra lasciata a sola roccaforte di Talebani e terrore all'Occidente ma sanno ascoltarvi le storie che giungon fin qui, affamate, malconce e con mezzi di fortuna. Una di queste è la storia di Enaiatollah Akbari, in breve Enaiat, raccontata dal giovane scrittore torinese Fabio Geda con il romanzo "Nel mare ci sono i coccodrilli" (Baldini Castoldi Dalai, 155 pag., 16 euro), freschissimo del riconoscimento di Libro dell'Anno di Fahrenheit 2010 e di un inarrestabile successo di critica e pubblico. In poche pagine cadenzate dal ritmo soffuso del dialogo, l'autore - ospite il 14 dicembre alle 21 alla Libreria Colombre di Erba - racconta l'odissea moderna di chi, nemmeno affacciato alla vita dei grandi, lascia la propria terra per approdare a quell'isola felice che è l'Italia vista da fuori, con rocambolesche peripezie dalla dolceamara, cruda e a tratti incredibile verità (Enaiat, che oggi ha vent'anni, è un bambino di etnia hazara che peregrina cinque anni prima di approdare in Italia, dove trova una famiglia, ndr).
Una perla della migliore letteratura contemporanea, quella che fa bene ai nostri tempi, senza pretese di gigantismo ma dall'altissimo valore etico e sociale, qui nata dall'incontro quasi casuale dei due a una presentazione torinese de "Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani" - opera prima dell'autore, anch'essa articolata sui temi del viaggio e dell'infanzia ma prodotto di pur verosimile fantasia - dove Enaiat fu chiamato a controcanto con la sua, di storia, questa vera.
È proprio l'assoluta verità del raccontato a rinsaldare la forza narrativa e le emozioni che inevitabilmente le pagine regalano. E i groppi in gola salgono, ancora più vibranti per la consapevolezza che il lieto fine concesso ad Enaiat e al lettore non è condiviso dalla nostra attualità più prossima, quotidianamente puntinata da decine di storie analoghe appena carezzate da una cronaca molto spesso nera.
Enaiat lo sa, e nel suo stesso sguardo e nelle sue parole si può leggere chiaramente l'inaspettata - ai nostri canoni - gratitudine verso una sorte che lui stesso giudica «molto fortunata», insieme al coraggio, alla maturità e al desiderio più grande di poter far ritorno alla sua gente, mormorando con un'occhiata il grido collettivo di un popolo verso i massimi sistemi perché qualcosa cambi nell'Asia centrale.

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