Quanto ci manca, oggi
l'utopia del "signor G"

Cantautore, ma soprattutto coscienza critica dei propri tempi: Gaber (1939-2003), a sette anni dalla morte, rivive in una biografia con rimandi anche comaschi. Nel 1954, ad esempio, il giovane Giorgio si trovava a Ramponio Verna per le vacanze e scriveva che...

di Dario Cercek

Era un'illogica allegria: «E sto bene/Io sto bene come uno quando sogna/non lo so se mi conviene/ma sto bene, che vergogna». Canzone dell'anno 1980. Trent'anni dopo diventa "L'illogica utopia". L'Italia e il mondo sono irriconoscibili. E Giorgio Gaber, che quell'illogica allegria cantava e che dell'Italia e del mondo era un acuto osservatore, non c'è più. "L'illogica utopia" è il tiolo del nuovo libro (editore Chiarelettere, 317 pag., euro 59) del fotografo e giornalista musicale Guido Harari: in oltre trecento pagine ci offre un ritratto di uno dei protagonisti della scena culturale italiana per quasi quarant'anni.
La formula è la stessa già utilizzata tre anni fa da Harari per restituirci Fabrizio De André in "Una goccia di splendore": un collage fatto di ritagli di giornali, di documenti i più svariati e naturalmente tantissime fotografie, di famiglia e di scena. Un collage in cui sono loro stessi, allora De André e ora Gaber, a raccontarsi. Un'autobiografia, dunque, come la vuole definire Harari. Si tratta pur sempre di un libro celebrativo, ma è proprio la schiettezza che ha sempre contraddistinto l'uomo Giorgio Gaber a fare che non si tratti di una celebrazione sterile. Perché "L'illogica utopia" non si legge come la semplice (auto)biografia di quello che definire un uomo di spettacolo sarebbe decisamente riduttivo. Certo, uomo di spettacolo lo era. E alla grande. Da solo era in grado di riempire lo spazio dell'intero palcoscenico con i suoi movimenti e la sua gestualità.
Ma era soprattutto coscienza critica del proprio tempo. E così, ripercorrere i 64 anni della vita di Giorgio Gaber - attraverso la strada indicataci da Harari -, va oltre il racconto della vita di un uomo. È, meglio, una storia del nostro Paese negli ultimi cinquant'anni, una storia vissuta e analizzata giorno per giorno (con gli inevitabili limiti di ogni analisi a caldo).
La scansione del libro è cronologica. Ognuno dei primi sei capitoli contempla un periodo della vita di Gaber dal 1939 al 2003.
Ad aprire, le fotografie dei primi biglietti da visita del chitarrista Gaber, un'immagine di scena degli anni Settanta, ma soprattutto - a specchiarsi nel frontespizio - una foto del profilo di Gaber, a sottolinearne il gran naso che era una delle sue caratteristiche fisiche. E che nel 1969 - ci racconta Harari nella cronologia - gli fa guadagnare il diploma di "nasone honoris causa" dai notabili del Regno di Nasonia. Ma all'aspetto goliardico, noi preferiamo pensare - se ci è consentita l'arditezza - al Cirano dipintoci da Edmond Rostand: «Cantare,/ sognar sereno e gaio, libero, indipendente,/ aver l'occhio sicuro e la voce possente,/ mettersi quando piaccia il feltro di traverso,/ per un sì, per un no, battersi o fare un verso». Il Cirano che alterna le dichiarazioni appassionate all'invettiva feroce, la tenerezza alla durezza. E quanta tenerezza e quanta ferocia anche nelle canzoni di Gaber.
Il libro curato da Harari comincia, naturalmente, dal Gaber bambino e adolescente: la nascita mel 1939 a Milano (Gaberscik, all'anagrafe: verrà buono, decenni dopo, a qualche detrattore che lo definirà Gaber-chic), la poliomelite che lo colpisce prima a una gamba e poi a un braccio e a una mano, i lunghi periodi d'ospedale , la musica avvicinata da giovanissimo e coltivata sotto la guida del fratello. Gaber, con la chitarra si destreggia mica da ridere. La prende in mano a 10 anni e a 12 un nuovo attacco di poliomelite («È andata fuori uso la mano sinistra, quella che con la chitarra serve per fare gli accordi. Da qui la tecnica tutta particolare che ho dovuto sviluppare»), a 16  «la prima volta che ho suonato sul serio in pubblico», a 18 anni il diploma di ragioniere. E l'impegno musicale che cresce. Intanto dall'America arriva il rock'n'roll: «Avevo diciassette anni e scelsi il sistema più rapido e sicuro per mettermi in vista: feci quel che fecaveno tutti gli altri, da Ghigo a Celentano. Chi voleva "sfondare" doveva "urlare". E vinceva chi "urlava" di più. Un espediente e anche un compromesso: giuro che, dentro di me, mi vergognavo».
Sono gli anni degli incontri con Enzo Jannacci e Adriano Celentano, anime diverse della scena musicale milanese. Mentre data già da allora il confronto e la collaborazione con Sandro Luporini, il pittore toscano che firma con Gaber alcuni testi immortali. Del resto, che Gaber non sia un cantante tradizionale, è chiaro da subito. Anno 1962: «Dicono che (le mie canzoni) siano malinconiche, e che anche le più disinvolte abbiano tutte un contenuto un po' triste, sofferto, sociale… Che il Ceruti sia un tipo patetico… Io credo in questa Milano, nella sua gente, in questo tipo di canzoni che non sono tristi, proprio perché guardano con occhi 'veri' della gente "vera"».
È anche per questo che, nonostante la carriera artistica più che ben avviata, il grande pubblico televisivo, guarda Gaber come un animale un po' strano.
Poi, il 1968: «Ero un cantante già affermato: Ombretta studiava russo e cinese. Guarda caso alla Statale di Milano. Andavo a prenderla con una macchina da cantante di successo, una Jaguar 4200. Il mio disagio nasceva dal fatto che  che non gliene fregasse niente a nessuno che io avessi una Jaguar, perché i ragazzi ritenevano che i valori veri fossero altri e questo mi mise un po' in crisi». E, quindi, svolta: «Non c'è dubbio che il Sessantotto abbia influenzato la mia decisione di mollare tutto per il teatro». E nasce il teatro-canzone che farà di Gaber quell'attore e cantante impietoso nel raccontare la nostra società, nel mettere in guardia dai conformismi di ogni tipo, nell'irridere il potere, nello stigmatizzare la degenerazione della vita politica italiana. Dal "Signor G" a "Un'idiozia conquistata a fatica".
Un lavoro, quello teatrale che lo allontana dal grande pubblico televisivo, ma che lo fa crescere come figura imprescindibile nel panorama politico o culturale italiane. I suoi lavori - scritti a quattro mani con Sandro Luporini - potevano piacere e non piacere. Certo è che non lasciavano indifferenti. Poteva anche non colpire nel segno, ma non lo si poteva ignorare.
È un lungo percorso culturale e politico, quello di Giorgio Gaber, che attraversa e seziona quanto accade in Italia e che arriva all'amarezza degli ultimi anni, quasi un senso di impotenza di fronte a una società che va verso la rovina («Il nemico è forse la stupidità dilagante di una società allo sbando. Al di là delle ideologie i cretini vanno stanati con ferocia e chiarezza»). Niente più teatro-canzone. Si prende una pausa. Ma continua a colpire, Gaber. E come sempre, spariglia le carte, divide, amato da un pubblico politicizzato ma sempre più lontano e disgustato dalla politica, la quale spesso riserva a Gaber anatemi. Anche dalla sinistra che sarebbe l'area culturale di un Gaber che della sinistra ha voluto sempre essere un pungolo, uno stimolo alla riflessione, contro ogni dogma. Per arrivare a quella sorta di amaro testamento che è "La nostra generazione ha perso": «Non è un'affermazione ottimista e consolatoria, ma, per quanto mi riguarda, è una constatazione doverosa. L'ammissione di una sconfitta e la sua analisi disincantata sono l'unico reale contributo che possiamo ancora dare a chi viene dopo di noi». Ancora una volta, Giorgio Gaber non usa mezze parole. C' tutto questo e tanto altro nel nuovo libro di Guido Harari, realizzato in collaborazione con la stessa Fondazione Giorgio Gaber che proprio in quest'ultimo scorcio del 2010 ha promosso a Milano una serie di appuntamenti, tra i quali la messa in scena (al Piccolo Teatro, per la voce di Claudio Bisio e la regia di Giorgio Gallione "Io quella volta avevo 25 anni", l'unico inedito in prosa firmato da Gaber e Luporini.
Nel libro, infine, non mancano  - oltre alla cronologia accurata compilata da Harari - la discografia curata da Claudio Sassi, le videografia e una bibliografia minima.


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Da Rampionio: "Cara zia,
sto diventando un attore"

(d.c.) All'inizio degli anni Cinquanta del Novecento, per Giorgio Gaber le vacanze estive, comuni a molti milanesi,  sono in Valle Intelvi: «Io me la spasso anche se la compagnia non è numerosa - scrive da Ramponio alla zia, nel luglio 1954 -. Tu non te lo immaginerai, ma io sto diventando un attore. Infatti recito, sebbene una parte secondaria, in una commedia che tu conoscerai quasi sicuramente: "La zia di Carlo"». Non doveva essere la prima volta (o forse lo spettacolo era poi cambiato, chissà), perché in un'intervista del 1961, Gaber la ricorda così: «Il mio primo contatto con il pubblico avvenne in modo casuale. Avevo dodici anni e mi trovavo in vacanza in un paesino della Valle Intelvi. I villeggianti avevano organizzato una recita della 'Maestrina' di Niccodemi e, poiché gli adulti che si erano improvvisati attori non erano sufficienti, decisero di trasformarmi nel bidello Pallone. Il personaggio doveva essere vecchio e grasso, oltre a saper suonare il violino. Ero ancora più magro di oggi, ma almeno sapevo suonare la chitarra. Ebbi allora per la prima volta la sensazione di come sul palcoscenico si possa essere qualsiasi cosa: credo che proprio in quel contatto senza importanza con la gente imparai a non emozionarmi».

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