"Insegnavo ai terroristi
a scrivere lettere d'amore"

Si trova a Capiago, al Centro Incontri Cristiani Padre Beppe Pierantoni, originario di Bologna, diventato famoso - suo malgrado - nel 2001, quando venne rapito in Asia dai terroristi islamici, poi rilasciato dopo 6 mesi di prigionia. La sua storia ricorda molto da vicino quella dei monaci protagonisti del film "Uomini di Dio", un caso al cinema nelle scorse settimane: diverso, fortunatamente per Padre Beppe, il finale. Lieto e ricco di speranza, come racconta lui stesso.

di Elena Salvaterra

Il territorio comasco sta vivendo, da qualche tempo, un fiorire di testimonianze sacre, dal recente riconoscimento della Chiesa di Maccio come Santuario ad altri avvenimenti ricchi di significato spirituale. È il caso dell'esperienza vissuta, e raccontata, da Padre Beppe, all'anagrafe Giuseppe Pierantoni, padre missionario dehoniano, originario di Bologna, oggi residente alla Casa degli Incontri Cristiani con sede a Capiago Intimiano.
La testimonianza di questo sacerdote ricorda molto da vicino - sebbene con tutt'altro finale - la vicenda dei monaci protagonisti del film "Uomini di Dio", grande successo di pubblico e di critica anche in Italia, dove è uscito qualche settimana fa. Diretto da Xavier Beauvois, premiato all'ultimo festival di Cannes, il film rievoca il rapimento di un gruppo di religiosi francesi - missionari sull'altopiano dell'Atlante, in Algeria - da parte di un gruppo di terroristi islamici. Nessuno di loro fece più ritorno al convento; era il 1996. Padre Beppe ha vissuto, proprio nei mesi che hanno segnato la trasformazione epocale della politica e dell'economia mondiale - a seguito dell'11 settembre 2001 -, l'esperienza del sequestro da parte di un gruppo di fanatici musulmani mentre era in missione. Si trovava in Asia, zona Mindanao, per dare supporto, insieme ad alcuni confratelli, alla comunità cristiana che si era sviluppata in quella terra remota. Era consapevole dei rischi che correva - lui, sacerdote cristiano in terra musulmana - ma non avrebbe  mai immaginato quale forma tali rischi avrebbero potuto assumere, fino al giorno del suo rapimento (17 ottobre 2001).
«Mi trovavo in cucina a preparare la cena, dopo avere celebrato la messa in sostituzione del mio confratello - racconta Padre Beppe ai lettori de "La Provincia" -  quando avvertii una presenza alle mie spalle e improvvisamente venni bloccato alle braccia. Pensavo fosse il mio confratello, che mi stava facendo uno scherzo. Immediatamente vidi davanti a me un gruppo di uomini armati, con la scritta "police"e mi trovai le manette ai polsi.  Quindi venni portato via, trasportato su una macchina».
Il discorso si interrompe e lascia il posto a un flash back.
«Vent'anni prima - intercala Padre Beppe - quella stessa parrocchia era stata messa a ferro e fuoco da un gruppo di fondamentalisti musulmani. Eppure gli abitanti musulmani del posto ci avevano accolto bene, ci portavano grande rispetto. Poi mi ritrovai solo, in quella stanza, per sei mesi». Tanto fu il tempo necessario a liberare il Padre Missionario, per via di numerose difficoltà intervenute nelle negoziazioni con il gruppo dei rapitori e di chi li sosteneva.
«Si trattò, per me, di un Sabato Santo - commenta il religioso - senza Bibbia, breviario, senza un compagno di fede. Solo un grande silenzio, buio, ma una presenza del Signore che sentii come Provvidenza tenerissima, che venne a soccorrermi nei momenti di smarrimento».
Padre Beppe, può dirci qualcosa di questa Presenza?

Sentii dentro di me come una voce che diceva: «Ecco, Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». Capii che quello che mi stava accadendo era voluto, previsto.
Cosa accadde durante il rapimento?

Un giorno - racconta Padre Beppe - ho chiesto a uno dei rapitori che sembrava il leader: «Ma voi chi siete?». «Padre, siamo musulmani - mi ha risposto -. Non ti abbiamo rapito per farti del male ma per scambiarti con del denaro per comprare armi».
Da quel giorno -  riferisce Padre Beppe - la paura e l'angoscia hanno lasciato il posto al discernimento. Da quel momento è iniziato il rapporto con i miei rapitori, che erano convinti fossi americano, sicuri che l'Italia fosse uno degli Stati dell'America. E iniziò uno scambio di parole che si rivelò prezioso.
In che senso?
I miei rapitori rimasero colpiti e incuriositi dal fatto che conoscevo diverse lingue. Proprio questa capacità e in particolare la conoscenza dell'Inglese mi ha permesso di stabilire un dialogo con i miei rapitori. Un giorno venne da me un ragazzo di circa 17 anni  che mi chiese se sapevo l'inglese. Risposi di sì e lui mi chiese se potevo aiutarlo a scrivere una lettera. Gli dissi di portare carta e penna e l'indomani iniziai a vedere il testo. Era la lettera a una ragazza, una lettera d'amore. Le chiedeva se lui le piaceva, e quanti anni aveva. Da quel giorno anche gli altri rapitori mi chiesero di dare loro una mano con altre lettere e cominciò un rapporto di conoscenza e dialogo.
Cambiò qualcosa in lei?
Il risentimento, legato al senso di abuso che stavo vivendo e il desiderio di riscatto nei confronti dei quello che mi stava accadendo si incrinò. Cominciai a guardare a queste persone come a giovani che vivono gravi drammi familiari ed esistenziali. Da quel momento ho sentito una spinta interiore ad amare e pregare anche per i miei rapitori. Lì io mi sono sentito libero dalla distanza, dal risentimento, da chi tu consideri "diverso". Questo è stato il miracolo, il dono della riconciliazione interiore".
Quali furono i suoi pensieri, subito dopo il rilascio?

Quando venni liberato - conclude Padre Beppe - ripensai  tante volte al rapimento. E provai un profondo senso di gratitudine nei confronti di Dio. La più terribile esperienza della mia vita si era trasformata nella mia più grande grazia. Siamo noi a scegliere quali sentimenti avere dentro di noi.

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