Il dramma del genocidio
dietro a una storia a colori

La famiglia di Agop Manoukian, presidente dell'azienda di vernici Lechler di Como, sfuggì allo sterminio degli Armeni. Quell'eredità culturale continua a vivere con intensità nel presente dei discendenti.

di Carla Colmegna

Agop Manoukian, imprenditore e  sociologo comasco nato da  un padre armeno, costretto a scappare nel 1909 dalla sua terra - la Cilicia -  per sfuggire ai massacri di Adana,  quando aveva solo nove anni. Agop Manoukian la storia della sua famiglia e della cultura armena se l'è sentita raccontare fin da piccolo e ne ha nutrito e tramandato rispetto, ma anche senso di responsabilità e appartenenza che ha poi traslato anche nell'impegno lavorativo in aziende familiari, la «F.lli Manoukian-Frama e la Lechler spa», l'azienda di vernici di cui è attualmente presidente e che conduce con i nipoti, Aram e Vasken, continuando l'opera del padre e del fratello Noubar.
Agop Manoukian ha una storia singolare, familiare e imprenditoriale, che si intreccia con vicende collegate alle origini armene e all'impegno della famiglia in diverse iniziative industriali. «Lechler» oggi sta vivendo un passaggio particolarmente significativo, visto che ha appena tagliato il traguardo dei cento anni della sua vicenda italiana. Per questa ricorrenza l'azienda ha promosso una ricerca sulla propria storia che ha dato origine ad  una pubblicazione in tre volumi curata da Agop Manoukian: "Lechler. Storia e Racconti di un Marchio", un'opera della quale era già stato presentato il primo volume "Vernici e smalti dal 1858" e che si completa ora con il secondo volume "Cent'anni di Lechler italiana" e la raccolta iconografica "Attraverso le immagini". Si tratta di libri che raccontano la storia italiana della Lechler nata il 24 febbraio 1910 con Giuseppe Brizzolara, Domenico La Regina e Alessandro Rizzi (sostenuti dalla Banca Amadeo e da un gruppo di soci ad essa collegati) e al tempo stesso inseriscono le vicende dell'impresa nel quadro delle evoluzioni della chimica italiana delle vernici. Attaccamento alle radici e vivissimo senso di appartenenza costituiscono caratteri distintivi nella famiglia dei Manoukian, provenienti dall'educazione trasmessa dal padre di Agop Manoukian.

Dottor Manoukian lei è imprenditore e sociologo, ma sembra di capire che alla base delle sue attività ci sia un costante richiamo alle radici e al senso di responsabilità e appartenenza a un gruppo. È cosi?


La mia carriera professionale è iniziata all'università con attività di ricerca sullo sviluppo industriale e sulla partecipazione politica e con attività di insegnamento. Dal '68 al '73 ho insegnato Storia delle istituzioni familiari, a Trento. Ora tengo un corso di gestione delle risorse umane  al quinto anno della Facoltà di Psicologia  ma questo è per me un lavoro marginale. Dagli anni '70 il mio impegno lavorativo si è concentrato nelle aziende di famiglia. Tutti abbiamo delle radici: le mie sono profondamente segnate da un genitore che ha vissuto le conseguenze del genocidio degli armeni e che mi ha trasmesso un forte senso di responsabilità per continuare le iniziative che aveva intrapreso in campo industriale, in particolare in Lechler, e per sostenere la causa armena.

Identificazione sociale e culturale e imprenditoriale quindi si fondono e garantiscono la sopravvivenza, anche in momenti difficili?


Sì, Lechler in particolare negli ultimi anni ha assunto la fisionomia di un'azienda a conduzione manageriale: è però vero che la cultura familiare condivisa anche dai collaboratori che non hanno legami familiari con i Manoukian, diventa il cardine  di una sostanziale continuità aziendale. Più volte i nostri collaboratori ci hanno invitato a non mollare, soprattutto quando tante grosse multinazionali chiedevano di poterci comperare.

Non si è mai sentito schiacciato dal peso di dover recuperare e difendere la cultura armena, minacciata dal genocidio?


Senz'altro no, anzi. Mio padre sposò un'italiana e fece di tutto per integrarsi al meglio in Italia, dove si trovò molto bene e venne ben accettato. In quegli anni i pochi armeni arrivati in Italia erano collocati in buone posizioni professionali e sociali, e quindi venivano guardati con rispetto e interesse. Io ho avuto un'educazione tutta italiana, ma ho studiato con passione la cultura armena e le basi della sua lingua. Non è stata un'imposizione da parte di mio padre, tant'è che non tutta la mia famiglia ha coltivato in egual misura questo interesse. Alcuni lo hanno particolarmente sviluppato: una mia nipote architetto porta avanti tuttora progetti di restauro di antichi monumenti armeni in Armenia. La tradizione di impegno per il mondo armeno continua  in varie forme, più elaborate. 

Vede analogie tra il genocidio armeno e i genocidi più recenti in ex Jugoslavia per esempio?


Certo, tutti i genocidi hanno similitudini. La parola genocidio è stata inizialmente coniata proprio per designare quel che è accaduto agli armeni: un'operazione di distruzione non solo delle persone, ma di tutto il patrimonio culturale di un popolo. Non a caso il 24 aprile 1915 è stata scelta come la data simbolo del genocidio armeno perché in quel giorno venne  arrestata l'intera classe degli  intellettuali e degli artisti armeni. È una violenza che continua ancor oggi con il disconoscimento della  storica presenza di una tradizione culturale armena in territorio anatolico. Tuttora il mancato  riconoscimento della realtà del genocidio costituisce uno dei fattori che ostacolano l'ingresso della Turchia  in Europa. È una ferita ancora molto aperta.

Film e libri sul genocidio armeno ne sono stati fatti e scritti. Li reputa fedeli e utili alla ricostruzione storica de fatti?


In Italia negli ultimi 15 anni si è notevolmente ampliata e diffusa l'attenzione per le vicende del popolo armeno. Sono stati pubblicati testi originali e traduzioni: alcuni hanno un importante valore documentario come quelli che riproducono gli atti diplomatici riferiti alla causa armena  depositati presso gli archivi del Ministero degli Esteri italiano; altri hanno un carattere divulgativo come "La masseria delle allodole" di Antonia Arslan, da cui i fratelli Taviani hanno tratto un film discutibile. Ben diverso, più complesso, e a mio avviso, più interessante è ad esempio , il film "Ararat" di Atom Egoyan.

I Manoukian mantengono il loro legame con le origini anche nei nomi che danno ai figli, nessuno si è mai ribellato chiamando il figlio, per esempio, Paolo?


No, non credo. Dare  un nome armeno al nuovo nato che porta il cognome Manoukian, permette di mantenere vivo un riferimento: è un segnale. Il legame con la nostra storia è inevitabilmente forte, tipico di chi è stato costretto a vivere in diaspora, magari separato, ma legato da un precedente  comune destino. La comunità armena in Italia è tuttora poco numerosa soprattutto se paragonata a quelle che vivono negli Usa, in Canada o in altri paesi europei, come la Francia. È tuttavia particolarmente attiva non solo per conservare e documentare i valori della tradizione, ma anche per mantenere viva la solidarietà con la piccola Repubblica d'Armenia che vive tuttora una condizione di assedio da parte dei paesi confinanti. Esiste una Unione degli Armeni d'Italia di cui per anni sono stato presidente.

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