L'italiano? Rischia l'estinzione
Fortuna che ci sono i dialetti

Nuove generazioni in difficoltà con lessico e sintassi. Bem 2800 i vocaboli da salvare. Per contro, le espressioni territoriali hanno avuto un brillante adattamento darwiniano. Una doppia pagina di commenti e interviste su "La Provincia", nel secondo appuntamento del viaggio alle radici della nostra nazione, a cura della redazione Cultura. Scarica la precedente puntata.

di Barbara Faverio

Sarà l'entusiasmo per "Yanez", che dal palco dell'Ariston ha portato il dialetto (comasco) in tutte le case d'Italia, consegnando idealmente al (nostro) vernacolo la carta d'identità della Repubblica Italiana. Fatto sta che mai come oggi la lingua territoriale - i dialetti - sembra in magnifica forma e pare finalmente lanciata verso una nuova dignità artistica: dopo essere stato classificato per secoli come letteratura - e poesie, e drammaturgia - minore, oggi l'idioma delle province italiane è assurto agli onori della critica e delle vendite. Basta ricordare autori come Andrea Camilleri, Michela Murgia e Salvatore Niffoi, che alla rivisitazione creativa dei rispettivi dialetti devono buona parte della loro fortuna letteraria. Se ha ragione Franco Brevini, che nel recente "La letteratura degli italiani" (Feltrinelli) sostiene che l'italiano nato dal toscano è stato a lungo - almeno fino all'effetto unificante di scuola nazionale e tv - una lingua «lingua mandarina precocemente ibernata» di fabbricazione tutta letteraria ed estranea alle cose ed alle emozioni (delle quali si faceva interprete invece il dialetto, mai riconosciuto però come lingua capace di produrre letteratura alta), un bilancio della lingua italiana in occasione dei 150 anni dell'Unità del Paese (di cui si è parlato anche nei giorni scorsi al Quirinale) non può che registrare positivamente non solo la sopravvivenza del dialetto, ma una sua mutazione genetica, un adattamento darwiniano che ne ha determinato una nuova vitalità all'interno dell'ecosistema letterario.
Peccato che a fronte di questo segnale di fecondità linguistica, la lingua nazionale registri invece un progressivo impoverimento. Più di uno studio ha dimostrato che la nuove generazioni possiedono un vocabolario molto più ristretto di quelle che le hanno precedute, e anche il ricorso alle strutture sintattiche più complesse è in caduta libera, rimpiazzati l'uno e le altre da codici elementari resi popolari da blog e sms, infarciti di abbreviazioni e anglicismi.
Non solo: secondo uno studio delle accademie della Crusca e dei Lincei risalente a un anno fa, i giovani non sono capaci di selezionare il registro linguistico, cioè di calibrare la lingua in base al livello culturale e sociale dell'interlocutore e alla situazione, scegliendo di conseguenza il lessico e persino la sintassi. E un'analoga semplificazione si riscontra nel linguaggio della classe politica, che tende ad abbassare il registro perché pensa così di conquistare più facilmente il consenso di chi ascolta, perdendo però in capacità argomentativa e spesso anche in autorevolezza.
Non sono dunque i dialetti a rischiare l'estinzione, ma l'italiano. Quanto questo sembra avviato verso un'atrofizzazione di molte delle sue componenti, quanto quelli appaiono vivi, se pur cambiati. Nell'ultima edizione del dizionario Zanichelli sono stati pubblicate 2.800 parole italiane da salvare, come fragranza, garrulo, solerte, sapido, fulgore. E sul portale Treccani, uno speciale sul rapporto tra lingua e idiomi locali parla di «ritorno di fiamma dei dialetti»: «Dialetti di certo fortemente italianizzati, sicuramente usati, frammisti all'italiano, soprattutto in ambito familiare e tra amici (se giovani, soprattutto in rete, con finalità ludico-espressive), ma finalmente liberati dal marchio d'infamia della subalternità socio-culturale e - dove non assunti addirittura come armi identitarie da contrapporre alla lingua nazionale - fruibili come varietà parallela e aggiuntiva rispetto all'italiano». «Grazie alla mediazione degli italiani regionali (varietà che avvicinano, nel corso del Novecento, i dialettofoni alla lingua) - scrive sul medesimo portale Massimo Cerruti - il dialetto oggi si offre come possibilità aggiuntiva nel repertorio individuale, non più sintomo e simbolo d'arretratezza o incultura, ma ulteriore risorsa espressiva».
Gli italiani, dunque, sono ancora attaccati alle loro radici linguistiche, e le difendono: come dimostra il malumore registrato quando la Rai ha messo in onda per i 150 anni dell'Unità d'Italia alcuni spot in cui a personaggi caricaturali venivano messe in bocca «parlate locali al limite del macchiettistico», come ha scritto Michela Murgia sul suo blog. «Se gli italiani fossero ancora quelli di 150 anni fa, probabilmente parleremmo ancora così», ammoniva il messaggio pubblicitario, calando dall'alto una definitiva contrapposizione fra lingua nazionale e lingue locali che forse è davvero superata.

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