Cultura e Spettacoli
Sabato 14 Gennaio 2012
Gli ebrei in Lombardia
Studio comasco negli Usa
Paolo Bernardini, professore di Storia all'Università dell'Insubria, ha pubblicato un saggio ricco di documenti di grande interesse per capire come, nel Settecento, al culmine della potenza culturale-economica delle comunità israelitiche, sia potuta iniziare la parabola discendente del loro ruolo politico.
Fino a poco tempo fa la storia degli ebrei aveva assunto tratti leggendari anche proprio laddove voleva essere più scientifica possibile. La leggenda, sostanzialmente, era una: come erano tristi, infelici, violenti, tragici i tempi del ghetto, quando gli ebrei vivevano segregati dal resto della popolazione, in case fatiscenti, in mezzo a oche e liquami, costretti ad unirsi in matrimonio solo tra di loro, e dunque malati, perversi, dediti a mestieri infami. Naturalmente, come tutte le fiabe, o quasi tutte, aveva un lieto fine.
Napoleone, il liberatore, avrebbe finalmente abbattuto le secolari mura del ghetto, parificato gli ebrei a tutti gli altri "cittadini", a coloro che prima del suo arrivo erano solo "sudditi" delle feroci monarchie assolute, illuminate quanto si vuole, ma sempre figlie di un rigido sistema castale e corporativo, che negava l'uguaglianza fondamentale tra gli uomini. Ora, la leggenda, figlia dell'Illuminismo, ha incontrato, finalmente, nuovi lumi, a dissipare le tenebre che nascondeva. Il mondo dell'ebraismo di antico regime, ancora così vicino a quello medievale, non era un mondo infernale, una saga di dèi ctoni, una perpetua sofferenza. D'altra parte, quel mondo "nuovo", quel mondo di giardini bellissimi punteggiati da "alberi della libertà", doveva dimostrarsi ben più tragico di quello antico, nel momento in cui lo Stato che gli ebrei aveva liberato avrebbe mutato le proprie, ondivaghe, legittimazioni: divenuto Stato di sangue e di suolo, di razza (ariana), gli ebrei non solo non erano più cittadini "liberi e uguali" come gli altri. Erano divenuti una piaga, e una risorsa economica, ma solo confiscando i loro beni. Dunque, Napoleone aveva certamente aperto le mura del ghetto, ma Hitler, suo perfetto continuatore, dai cancelli spalancati dei ghetti d'Europa aveva fatto confluire gli ebrei in un cancello tristemente famoso, quello di Auschwitz. La parabola della liberazione si compiva così, nella maniera peggiore. Anche 90.000 ebrei francesi, figli di quella "liberté" rivoluzionaria, di quella "egalité" così tanto esaltata, erano saliti sui treni di Vichy per giungere ai lager polacchi. In un libro appena pubblicato in America, "The Jews: Instructions for Use" (Academic Studies Press, 220 pag., su www.amazon.com), Diego Lucci ed io abbiamo studiato quattro progetti di emancipazione e riforma della condizione degli ebrei nel Settecento. Passando dall'Inghilterra alla Prussia, dalla Francia alla Lombardia. Sì, perché proprio in Lombardia vi era una delle maggiori comunità ebraiche europee, quella di Mantova, e una costellazione di altre, piccole, come a Como, ma tutte significative.
Gli ebrei mantovani, il 10% della popolazione nel Settecento, insieme alla nobiltà, loro avversario, erano la parte più ricca. Gli ebrei di Mantova migrarono verso Milano nella seconda metà dell'Ottocento perché Mantova aveva subito tutto l'immiserimento possibile dovuto alle politiche sabaude, dopo l'annessione "plebiscitaria" del 1866, la stessa sorte che toccò al Veneto, annesso nel medesimo anno e negli stessi modi. La comunità, che resiste tuttora, divenne minima. Eppure, durante il periodo dei Gonzaga, e in quello austriaco, gli ebrei di Mantova diedero vita ad una vicenda culturale unica, con figure notevoli, rabbini, scrittori, viaggiatori, con stamperie e con tribunali di prim'ordine, che non ritroveremo nell'Ottocento dell'assimilazione più o meno coatta, più o meno realmente desiderata.
Il mondo delle corporazioni di antico regime, il mondo dei "piccoli Stati" dentro lo Stato, il mondo dei ghetti, era un mondo in cui le comunità, tutelate, rispettate, attive, vivevano in armonia con il resto della società, con i propri tribunali, i propri riti, le proprie reti internazionali, che non erano solo commerciali. Certo vi era chi, tra gli stessi ebrei, vedeva nelle promesse rivoluzionari,e nell'uguaglianza, il verbo del futuro, ovvero il modo per allontanarsi dalle consuetudini e per fare fortuna, per "emanciparsi" individualmente mentre l'emancipazione avrebbe reso tutti uguali: salvo poi ritorcersi contro, in maniera crudele, a coloro che per primi vi avevano creduto. A Mantova gli ebrei lombardi potevano esprimere la propria identità e cultura senza ostacoli, le politiche degli Asburgo erano di cauta apertura verso il nuovo, la violenta parificazione francese, il render tutti "cittadini" fu un disastro. Aldilà dell'esito catastrofico di quella che Lucci ed io abbiamo chiamato nazionalizzazione degli ebrei d'Europa, l'essere "uguali" per legge fece sì che le (innegabili) differenze, anche quando lievi, l'aspetto, le tradizioni, la religione (che lieve non era), diventassero macroscopiche per chi, per scopi ignobili, volesse metterle in luce.
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