
Cultura e Spettacoli
Lunedì 13 Febbraio 2012
Donne, un anno dopo
Qualcosa è cambiato
Il 13 febbraio del 2011 le piazze italiane si affollarono nel segno della protesta contro la dignità e le pari opportunità violate: cos'è cambiato, nel concreto? La storica e giornalista Valeria Palumbo fa il punto. Con molte sorprese...
11 febbraio 2011: sul quotidiano "la Repubblica" la prima donna arriva a pagina 16. È Clio Napolitano. La moglie del presidente, alla vigilia della grande manifestazione di donne, che, due giorni dopo porterà in piazza 2 milioni di persone "sfufe" di come metà d'Italia venga rappresentata e trattata, prende posizione e dichiara: «Vivo questo momento storico con turbamento ma anche con speranza».
Il tema di quei giorni è il Rubygate, l'accusa all'allora premier Silvio Berlusconi, di aver davvero esagerato con i suoi festini a base di donnine svestite e canzoncine e di aver coinvolto, pagandola, anche una minorenne, Ruby. La vicenda ha assunto un connotato surreale perché, nel tentativo di giustificare la protezione accordata alla ragazza in occasione di un arresto per furto il 27 maggio 2010, il premier l'ha fatta passare per la nipote del leader egiziano Mubarak. La tesi crea imbarazzo anche a livello internazionale.
Ma il peggio deve ancora venire: nel rinvio a giudizio di Berlusconi e nelle testimonianze salta fuori la storia del "bunga bunga". Il termine, che indicherebbe alcune pratiche durante le festicciole nelle residenze del premier, fa il giro del mondo. In Cina diventa più popolare dei nostri marchi di moda.
Le donne italiane, molte almeno, lo prendono come uno schiaffo. E la protesta monta. Fino al 13 febbraio, quando un milione di donne (e di uomini) da tutte le piazze d'Italia e persino dall'estero, alla domanda «Se non ora, quando?», risponde «Adesso!». E con questo vuol dire: basta con quest'immagine (e questo uso) delle donne italiane. L'Italia non è nuova alla piazza. Né lo sono alle donne. Eppure quel grido «adesso!», nonostante gli inevitabili distinguo e qualche deriva involontariamente misogina (le stesse donne scese in piazza con la carta d'identità per dimostrare di non essere prostitute), ha un effetto dirompente. Quasi un anno dopo, martedì 20 dicembre, la pagina 3 della "Repubblica" è occupata dalle foto di tre donne: Susanna Camusso, leader della Cgil, Elsa Fornero, ministro del Welfare, ed Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. Dai giorni in cui quotidiani, periodici, siti Internet e telegioRnali apparivano illustrati soltanto da ragazze discinte e ammiccanti, sembra passato un secolo. Ma è davvero così? Se è evidente che tra la siliconata Minetti e l'accigliata Camusso non c'è solo un baratro fisico, ma un ancor più grande baratro mentale, è anche vero la realtà è sempre molto più complessa. E che non basta desiderare che le donne siano tutte simil-Marcegaglia, o non basta disegnarle così, perché lo diventino davvero. Il flop dell'ennesimo cinepanettone, quest'anno, ne è un piccolo segnale: la crisi economica è ormai così grave che i lustrini, tutti i lustrini, danno sui nervi. Abbiamo cose più serie a cui pensare. Ma questo non vuol dire che le moltitudini di ragazzine festanti che si presentavano ai provini televisivi e gli adolescenti che dichiaravano di sognare come padre Paolo Bonolis o Silvio Berlusconi si siano convertiti alla filosofia morale. Intanto uno su tre di loro sta a casa senza lavoro. E con poca istruzione. L'ipotesi che fantastichi ancora su un colpo di fortuna a basso prezzo (o a prezzo del proprio corpo) non è tramontata.
E poi, e poi... Ha forse poca memoria chi, l'anno scorso, s'indignava per l'immagine "nuda" delle donne sui media, anche sull'onda lunga di un documentario che ha avuto un successo inatteso (e forse esagerato), "Il corpo delle donne", di Lorella Zanardo, nel quale si denunciava l'esibizione plastificata dell'anatomia femminile in tv. Ha poca memoria e forse guarda troppa televisione, ma sfoglia con disattenzione i giornali. Perché la realtà è che le donne italiane non hanno mai goduto di buona stampa: fino agli anni della contestazione, comparivano sui giornali solo se recitavano, si svestivano a Cannes o morivano ammazzate. I settimanali, anche quelli più "impegnati" parlavano di politica ed economia... e nelle ultime pagine passavano ai bikini e ai film con le dive. Durante la contestazione, le donne che rivendicavano i loro diritti se le sono sentite dire di tutti i colori: le interviste - maschili - dell'epoca (perché all'epoca di donne nei giornali ce n'erano davvero poche) erano quasi sempre ironiche o, quando andava bene, stupite.
Ma dopo, soltanto dopo e molto lentamente, è cominciata una marcia diversa. L'Italia, si sa, è ben lontana dalle "quote" e dai livelli di parità dell'Europa del Nord. Eppure anche da noi, mentre le redazioni, anche quelle televisive, si affollavano di volti e poltrone femminili (oggi è una donna, Lorenza Lei, a guidare la Rai), le pagine dei giornali e di Internet e i servizi dei telegiornali si affollavano di italiane "diverse". E proprio mentre infuriava il toto Minetti-Ruby-Papi girls, il Tribunale di Milano affidava a tre donne della quinta sezione penale, Annamaria Gatto (presidente del collegio), Manuela Cannavale e Paola Pendino, il processo sul caso Ruby a carico di Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora. E a tre donne, Giulia Turri, Carmen D'Elia e Orsola De Cristofaro, lo stesso processo a carico di Silvio Berlusconi. Nel frattempo, nelle pagine di economia, cronaca e cultura, una schiera di altre magistrate, poliziotte, imprenditrici, dottoresse, ricercatrici, filosofe, scrittrici e artisti, occupavano spazi del tutto impensabili soltanto vent'anni fa.
Il motivo è semplice: prima non c'erano. E spesso, perfino le femministe con più lunga memoria storica dimenticano che, nei mitizzati anni Settanta, le donne, in Italia, non ricoprivano posti di responsabilità nel mondo del lavoro e della cultura. La prima donna ministro, Tina Anselmi, fu nominata nel 1976. E abbiamo dovuto aspettare il 2006 e il governo Prodi II per vedere sei ministri donna, benché solo una, Livia Turco, avesse un dicastero importante, la Sanità: le altre erano tutte senza portafoglio. L'ultimo governo Berlusconi contava quattro ministre: Mara Carfagna alle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo all'Ambiente, Maria Stella Gelmini all'Istruzione, università e ricerca, e Giorgia Meloni alle Politiche giovanili. Chissà perché, sembravano di meno. Non ha aiutato che due fossero senza portafoglio. Non hanno aiutato, per la Gelmini e la Carfagna, le polemiche sulle loro rapide carriere politiche. Non ha aiutato, infine, la diffidenza dei movimenti femminili che, un po' paradossalmente, rivendicano (e giustamente) una presenza massiccia delle donne ai vertici della politica. E poi fanno i distinguo. Ora le ministre sono soltanto tre. E anche se i loro dicasteri son ben più importanti (Anna Maria Cancellieri è all'Interno, Paola Severino alla Giustizia, ed Elsa Fornero al ministero del Lavoro e delle politiche sociali), è comunque interessante che sembrino molte di più. E molto più autorevoli.
In sintesi forse è proprio questo che il grido del 13 febbraio ci ha restituito (o forse addirittura dato): un'esigenza di autorevolezza. Un diritto all'ascolto serio. Purtroppo per lei, sulla Carfagna sembrava facile infierire... ma resta sempre un dubbio: perché si ritiene facile infierire su una donna, mentre su politici quantomeno controversi come Denis Verdini, Claudio Scajola e Domenico Scilipoti, si fanno così pochi commenti etico-estetico (per non parlare di personaggi come Mario Borghezio)? C'è da sperare, poi, che l'autorevolezza delle nuove ministre, così come quella delle sindacaliste e delle magistrate, non si fondi sul loro aspetto austero e castigato: sarebbe un nuovo ghetto e un nuovo stereotipo. Speriamo insomma che eliminati i bicipiTi maschili (anche quelli, sì) e i fondoschiena levigati dalla prima serata, in tv e sui giornali appaiano le donne vere. E qualche uomo vero. Perché anche quelli, tra bandane, fard, tacchi, yacht, barzellette sceme, ci sono tanto mancati.
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