Gli italiani e la famiglia
Come cavarsela oggi

Per gentile concessione, pubblichiamo un capitolo del saggio di Salvatore Natoli contenuto nel volume "Viaggio in Italia. Alla ricerca dell'identità perduta" (PerFiducia, 144 pag.) presentato ieri a Milano. In allegato il file completo. Ecco dove scaricare la versione ebook del testo, con i contributi di grandi pensatori italiani, da Ilvo Diamanti a Luigi Zoja.

<+G_NERO>Per gentile concessione, pubblichiamo un capitolo del saggio di Salvatore Natoli contenuto nel volume "Viaggio in Italia. Alla ricerca dell'identità perduta" (PerFiducia, 144 pag.) presentato ieri a Milano.

<+G_CULTURAFIRMA>Salvatore Natoli
<+G_SQUARE><+G_TONDO>Sull'identità degli italiani si è molto detto e scritto, da Guicciardini fino a noi. Per farsene un'idea - almeno limitatamente al dibattito tra Ottocento e Novecento - basta scorrere una recente, felice antologia di testi dal titolo Siamo italiani.1 Ho appena citato Guicciardini e in queste mie considerazioni prendo avvio proprio da lui. Ma - mi si dirà - perché da così lontano? Non voglio certo entrare nel merito della sua filosofia politica, però mi pare che nelle sue cronache egli abbia ben tratteggiato quelle condizioni che fin dagli esordi della modernità hanno modellato il carattere degli italiani tanto da divenirne delle costanti, ritracciabili perfino oggi nell'età della globalizzazione. Tra queste in particolare due: 1) L'assenza di senso dello Stato e, a seguire, una scarsa fiducia nelle istituzioni; 2) Un decollo tardo e limitato del capitalismo e con esso della sua etica. Due carenze che hanno impedito - o comunque ritardato - il formarsi di uno Stato laico moderno.

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<+G_TONDO>Gli italiani, nella lunga privazione di Stato, non hanno appreso a elaborare regole di condotta condivise, ma hanno trovato la loro forma di sussistenza e organizzazione nei legami di comunità e nelle specie familiari: in senso lato, di conoscenze. Di qui quell'assetto familistico che ha rallentato il formarsi di una mentalità modellata sull'idea di bene pubblico. In assenza di Stato, a far da Stato ha provveduto la famiglia e, più in generale, i rapporti di prossimità. Di questo si ha prova nelle crisi economiche, dove a reggere è il welfare familiare. Oggi più che mai, in una restrizione progressiva dello Stato sociale.
Ora, la carenza di senso dello Stato non ha certo abolito lo Stato, ma ha permesso il prodursi di un rapporto sempre più degenerato con esso e con le istituzioni nel loro complesso. In Italia si è antagonisti o sottomessi; con difficoltà cittadini. Questo atteggiamento ha spinto, in modo più o meno dichiarato, individui e gruppi sociali a ricercare protezioni anziché concorrere al perseguimento dell'interesse generale. Il voto di scambio - ampiamente praticato, specie in territori a più basso tasso di sviluppo - ne è la prova e insieme la cifra. D'altra parte questi sono anche meccanismi di difesa: infatti, attecchiscono facilmente nel degrado o in contesti ove i soggetti hanno poche opzioni e non vengono loro offerte opportunità favorevoli.
Tuttavia, seppur variamente motivata, questa condotta è diventata costume o ha comunque alterato le tipologie d'aspettativa tra elettori ed eletti nella forma: che me ne viene, quale vantaggio personale ne trarrò. Naturale in conseguenza il diffondersi di rapporti servili che finiscono per mettere in competizione tra loro i vari stessi clienti. E mentre le clientele aumentano, collassa la società.
Tali comportamenti hanno reso aleatoria e perfino retorica l'idea di bene pubblico. In questo quadro, parlare di merito risulta pleonastico. Certo, non è la condotta di tutti gli italiani - anzi, è per molti motivo d'irritazione -, ma non è sufficiente a produrre organizzazione. E così si oscilla tra ribellione e depressione. È, dunque, più che mai vero che sul piano dell'etica pubblica esiste una doppia Italia. Tuttavia, quella legale non ha avuto la forza, né l'organizzazione sufficiente, per imbrigliare il diffondersi delle pratiche corruttive: è riuscita solo ad alimentare uno spirito di rivolta che non ha, però, trovato un adeguato sbocco politico. Di qui l'eterna dicotomia tra clientelismo e ribellismo. Nonostante questo, la società italiana ha storicamente tenuto - e nel suo complesso tiene - facendo leva sulle sue ancestrali caratteristiche trasformiste: sappiamo adattarci e purtroppo anche al peggio. Il trasformismo di cui parlo non è da confondere con le vecchie pratiche parlamentari del cambiare collocazione a seconda delle convenienze; mi riferisco a qualcosa che ha che fare con l'antropologia propria degli italiani, che vede prevalere l'adattività sulla discontinuità. Non nego le capacità creative di singoli e gruppi: penso piuttosto all'andatura media del "sistema".
Nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono. In breve diventano diversi senza rendersene pienamente conto. È il nostro abituale "navigare a vista". Per gli italiani innovare - salvo singolari eccezioni - vuol dire sapersela cavare. Per questa ragione patiscono meno di altri le crisi, ma restano in coda quando gli altri crescono. Evidentemente, crescono di meno, e perciò soffrono meno lo scarto. Questo ci ha finora permesso di galleggiare, ma tiene bassa l'efficienza media del paese e ne paghiamo duramente i costi. Ben lo sanno le nostre intelligenze migliori che per emergere sono costrette a sopportare maggiori sforzi di coloro che beneficiano di un'efficienza media di sistema più alta, e partono perciò avvantaggiati.
Da quanto detto, appare chiaro che la società italiana riesce a sopportare il deficit di sistema attraverso meccanismi compensativi che hanno nel welfare familiare - almeno fino ad ora - il loro asse portante.
In questo quadro, ognuno provvede ai suoi affari, mentre i partiti, lungi dall'amministrare gli interessi collettivi, tendono a occupare lo Stato e ne impiegano le risorse per organizzare consenso. Ognuno s'ingegna, per proprio conto, a conquistare pezzi di società. E questo perfino oggi, in una società che ha sempre più difficoltà a stare insieme. Ciò spiega perché gli italiani, nel loro rapportarsi allo Stato, cercano un potere protettore oppure vedono un nemico: in ogni caso, si sentono a esso estranei e quanto meno non si vivono come potere costituente.
Inevitabile il degrado dei partiti, sempre di più strutturati come organizzazioni clientelari, funzionali a guadagnare consenso a fronte di scambio di favori, e sempre meno portatori di opzioni politiche, certamente parziali perché tali sono gli interessi, ma tese al perseguimento del bene pubblico. Un bene che può essere variamente concepito: ma la fecondità della politica matura nel contrasto, passa per il dibattito pubblico sull'utile collettivo, su ciò che è bene o meno per la società.

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Eco di Bergamo SALVATORE NATOLI TESTO