
Cultura e Spettacoli
Mercoledì 28 Marzo 2012
In "Cesare" dei Taviani
vita e teatro si fondono
Da non perdere la visione del film che ha vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Ecco il trailer.
William Shakespeare - "Giulio Cesare" - dietro le sbarre di una sezione di alta sicurezza di Rebibbia. Potrebbe essere un documentario sulla pratica del teatro in prigione che il regista Fabio Cavalli conduce da anni nelle carceri romane, oppure la ripresa di una relativa messinscena, cioè teatro filmato.
Ma "Cesare deve morire" è un'altra cosa: un film di Paolo e Vittorio Taviani, premiato a Berlino con l'Orso d'oro, che rinserra empito e stile dei due fratelli registi, senza altra diluizione che l'aurea vena shakespeariana, bastevole del resto per infondere l'acqua della vita a qualsiasi recita. Però quella di "Cesare deve morire" non lo è, sia perché i carcerati-attori hanno pesanti schede matricolari, sia perché il loro teatro s'intreccia con scorci di realtà che il regista Cavalli è ben attento a rispettare. Ai Taviani, a parte il rigore del bianco e nero elitticamente racchiuso dal colore, spettano i rimandi ad una filmografia cui il dramma carcerario aderisce soprattutto attraverso il tormentato personaggio del tirannicida Bruto, ma intanto per più di una breccia la rappresentazione e la realtà si (con)fondono, perché in una prigione vera, tra veri carcerati, parole come tradimento e lealtà, così come la definizione di uomini d'onore, acquisiscono risonanze che oltrepassano la drammatizzazione. È così che la recita e la vita diventano lo stesso terreno, un palcoscenico sul quale la finzione allarga le sbarre senza essere per questo un'evasione. Merito, oltre che di un'impostazione drammaturgica essenziale sulla scena carceraria, di interpreti che appaiono eccellenti attori. Non devono apparire convincenti, ma essere come sono (e infatti Salvatore Striano, Bruto, scontata la pena diventa attore) e il risultato è ammirevole. Quanto sia produttivo il contatto con l'arte è esplicitato dalla battuta conclusiva - ora, dice, un detenuto, "questa cella mi sembra una prigione" - purché non sia solo un (poetico) gioco di parole.
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