Cultura e Spettacoli
Sabato 02 Giugno 2012
Lo scrittore e il Taj Mahal
Il reportage di Mario Biondi
Prosegue, ad Agra, il viaggio del narratore comasco in India.
Mario Biondi s'è trasferito a San Fermo (Co) da bambino. Laureato in Economia politica alla Bocconi, dopo anni nell'industria e nell'editoria, ha esordito come autore nel 1973 con il volume di poesie "Per rompere qualcosa"; due anni più tardi il primo romanzo "Il lupo bambino". Con "Gli occhi di una donna" ha vinto il Premio Super Campiello 1985.
Da Delhi ad Agra si va in auto, esperienza non trascurabile: il percorso è un'autostrada con tanto di pedaggio, ma la vacca sacra vi trionfa imperturbabile insieme alla bicicletta e al tuc-tuc (risciò motorizzato). Ci pedala sopra con vigore anche un fedele indù diretto a una cerimonia religiosa con il suo guru: stipata nel carrettino attaccato alla sella c'è tutta la famiglia, protetta da un tendone dove campeggia enorme la faccia sorridente del sant'uomo. Anch'io, del resto, sto andando a onorare un mio nume tutelare, Babur la Tigre, uomo fantastico.
A dodici anni assurge al potere nel suo clan, nell'Uzbekistan Orientale, poi, adolescente, prova più volte ad affermare il suo diritto a governare Samarcanda, perla della Via della Seta e capitale dell'impero di suo prozio Tamerlano, ma non ce la fa. I parenti-serpenti complottano, e lui si rifugia in esilio a Osh, estrema Valle Ferghana, oggi in Kirghizistan, appollaiato su uno sperone di montagna da dove comincia a rivolgere sguardi non disinteressati a Oriente: Afghanistan e India. Anni fa, tornando a casa dalla mia prima Cina, sono andato fino a Osh quasi soltanto per vedere la sua presunta dimora. Le vicende della sua vita richiederebbero un intero libro, che per altro ha già scritto lui stesso, temibile guerriero e fine letterato di cultura persiana.
Per farla breve, nel 1526 conquista Delhi e dintorni, mandando il figlio Humayun a prendere Agra lungo la stessa strada piattissima che ho percorso io, anche se non era ancora un'autostrada. E Agra diventa la capitale della stirpe di Babur: Humayun, Akbar, Jahangir, Shah Jahan, Aurangzeb. E gli altri, nel malinconico declino di fronte prima ai Nababbi e poi ai britannici. Durante questo declino, da quei favolosi saloni e forzieri sono stati rapinati oggettini come il Trono del Pavone, dove si è assiso lo Scià di Persia per sposare Farah Dhiba, e il Ko-hi-noor, uno dei massimi diamanti del mondo.
Città veramente favolosa, Agra, un luogo che chi viaggia non può mancare di visitare e ammirare. L'antenato Tamerlano durante le sue conquiste assoldava ovunque poeti, architetti, scultori, pittori e astronomi per portarli ad abbellire la sua Samarcanda (e dintorni), e lo stesso fecero i suoi discendenti Moghul, lasciando a futura memoria un florilegio di splendidi edifici in un miscuglio di stili persiani, turcheschi e centro-asiatici. E la perla di tutto ciò è il Taj Mahal, una delle meraviglie di tutti i tempi.
Nel 1631 l'imperatore Shah Jahan fu sconvolto dal dolore per la morte dell'amatissima sposa Mumtaz. Per portarne sempre nel cuore il ricordo, l'anno seguente fece iniziare la costruzione di quello che è tuttora uno dei più straordinari monumenti funebri di tutti i tempi. E lo volle in una posizione tale da poterlo avere sempre sotto gli occhi da un altro mirabile edificio, il Forte di Agra, imprendibile palazzo di governo fatto erigere da suo nonno Akbar, il Grande, il più splendido degli imperatori Moghul. «Il colpevole che vi cercherà il perdono sarà liberato dal peccato», scrisse del Taj Mahal lo stesso Shah Jahan in uno degli esercizi poetici in cui questi grandi guerrieri e governanti erano tenuti per tradizione famigliare a esercitarsi.
E nel farlo edificare proprio in quella posizione fu molto previdente, visto che il figlio Aurangzeb finì con lo spodestarlo, rinchiudendolo nel Forte, dalle cui incantevoli grate di marmo traforato il prigioniero poté continuare a rivolgere i suoi sguardi innamorati al luogo dove dormiva il grande amore della sua vita. Così, perlomeno, racconta l'agiografia. La realtà fu probabilmente diversa, ma guardare il Taj Mahal da quelle finestre del Forte nella lieve foschia del primo mattino riempie tuttora di un senso di struggimento. Alla fine lo stesso Shah Jahan fu sepolto lì accanto alla sposa: fotografare le tombe è proibitissimo, e questo indisciplinato italiano si becca un giustissimo pestone sulla mano mentre cerca di farlo di nascosto. Ma la foto, sebbene scura e poco nitida, era già stata scattata.
Il senso di struggimento dilaga letteralmente quando si varca il portale e si entra nel giardino del Taj Mahal: là in fondo si staglia l'edificio, riflesso nella lunghissima fontana rettangolare che gli fa da ingresso. Quelli che hanno progettato il Mall (Mahal?) di Washington si sono di sicuro ispirati lì. Ma l'antica cultura persiana e un marmo di un grigino così diafano, dove li trovi oggi? E che mirabile contrasto con il cielo ma soprattutto con la folla che si accalca nei viali. Folla dai mille colori, in grande prevalenza indiani entusiasti di essere in vacanza e in particolare lì, in uno dei luoghi che non occorre cultura ma soltanto sentimento per giudicare uno dei più belli del mondo. L'avrò visto centinaia di volte riprodotto, ma una foto o un film non potranno mai rendere la vera idea di una simile armonia di linee e colori.
Mi siedo su una panca di marmo, proprio di fronte, e ci rimango a rimirarlo per lunghi minuti quasi volessi farlo tutto mio, sordo alle blande proteste di chi vuole farsi fotografare proprio lì. E non mi importa un fico secco se qualcuno, più tardi, mi farà malignamente notare che è la stessa panca su cui si è fatta fotografare la povera Lady Diana. E allora? Mi ci sono fatto fotografare anch'io.
Ma è quasi persino più bella la gita che quel pomeriggio faccio al di là del fiume per godere della visione da un'altra prospettiva. Non c'è quasi nessuno, a parte una muscolare giovinotta nordica che si regge in equilibrio sulla testa (sulla testa!), forse per vedere il Taj Mahal in una prospettiva del tutto inedita. Piazzata davanti a lei, una pletorica famiglia locale la guarda in stupefatto silenzio. Padre, madre e sette figli dai 19 ai 7 anni. Avvistatomi, lasciano la valchiria al suo ginnico esercizio per venire a dedicarmi la loro delicata cortesia. Che bella gente. Le loro voci cinguettanti coronano in maniera impareggiabile le emozioni della mia giornata. L'India Moghul mi piace, ed è inutile commentare "bella forza"…
(Seconda puntata, continua)
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