
Cultura e Spettacoli
Giovedì 17 Gennaio 2013
Ruini, la fede, Dio
L'analisi di Petrosino
Il filosofo milanese dell'Università Cattolica ha letto e commentato il nuovo libro del cardinale Camillo Ruini (Intervista su Dio. Le parole della fede, il cammino della ragione, a cura di Andrea Galli, Mondadori). La Provincia ha ottenuto, in esclusiva e in anteprima, l'articolo che uscirà su Vita e Pensiero, in edicola il 23 gennaio. Ecco la versione completa. Tutti i diritti sono riservati.
Quanto Nietzsche afferma a proposito della morale – «È molto importante che rifl etta sulla morale il minor numero di uomini possibile – ha quindi grande peso il fatto che la morale non diventi un bel giorno interessante» (in Al di là del bene e del male) – è ancora più vero, se mai è possibile, in relazione a quel tema intrattabile che è “Dio”. In verità la critica nietzschiana più che il rifl ettere riguarda il parlare, l'esternare il proprio pensiero. In effetti molti sono attratti verso la morale e verso Dio, sono sicuri di avere qualcosa da dire in proposito e soprattutto, questo sì che è grave, sono determinati, senza se e senza ma, nel volerlo comunicare al mondo.
Si passa così da un luogo comune a un altro, da un eccesso all'altro, alimentando di conseguenza quella retorica dell'assenso o del dissenso tanto prolifi ca di testi quanto sterile di pensiero. È contro simili eccessi che si muove l'ultimo lavoro del cardinale Camillo Ruini (Intervista su Dio, a cura di Andrea Galli, edito da Mondadori), un libro che sviluppa un'ampia rifl essione sulle ragioni più profonde del credere. Si tratta di un testo ampio e articolato, che affronta tematiche diverse relative alla fi losofi a, all'antropologia religiosa, alla storia della Chiesa, all'esegesi biblica e ad altro ancora. In questa sede non è possibile in alcun modo rendere conto dell'intera argomentazione proposta dall'autore, un'argomentazione che tuttavia mi sembra poggiare, almeno per quanto attiene all'essenziale, su tre tesi fondamentali, le quali meritano la massima attenzione proprio per non cadere in quella facile retorica che non esita un istante a svilupparsi intorno a questo tema.
Vi è innanzitutto la sottolineatura, di natura antropologica e fenomenologica, del “carattere aprente-rinviante” della ragione e del desiderio umani. È una delle tesi continuamente ribadite nel corso dell'intervista: si tratta di riconoscere più che di dimostrare – ecco il carattere fenomenologico – «l'apertura illimitata del nostro interrogarci» (p. 77), «l'apertura illimitata del nostro interrogarsi e del nostro desiderare» (p. 104).
Il testo insiste nel riproporre queste formule che devono sempre essere intese sia nel senso dell'‘‘apertura” sia in quello dell'“illimitato”. La via scelta per parlare di Dio non è dunque quella della “folgorazione”, dell'“illuminazione”, e in prima istanza neppure quella dell'“esattezza” o della potenza della, e nella, certezza, bensì è quella della “via” stessa, di un “cammino” che drammaticamente (su questo si dovrà tornare) si distende lungo una storia. In tal senso la ragione e il desiderio umani vengono qui interpretati non solo come stimoli al cammino, come qualcosa che a un certo punto spinge a mettersi in cammino, ma come delle realtà che in se stesse sono in cammino, realtà in cui lo stesso modo d'essere, a differenza di ogni altro ente, è quello del cammino e dell'apertura, di un'apertura che fi n dal principio e in se stessa è già apertaa, è già coinvolta/esposta in un cammino-verso. Prima di aprirsi-a, ad esempio per dimostrare o contraddire, il desiderio e la ragione umani sono già aperti-a, sono per l'appunto già in cammino, cioè sono già da sempre parola-rivolta-a. Questa “apertura” è più originaria, se così posso esprimermi, di ogni dimostrazione, di ogni capacità e forza dimostrative: l'uomo (che come tale è sempre abitato dalla ragione e dal desiderio) è l'aperto e il parlante, il suo modo d'essere è quello dell'irriducibile sollecitazione e dell'insistente ri-apertura (inquietudine essenziale della condizione umana). Il “cerchio”, ad esempio, simbolo perfetto dell'inarrestabile e muto fl uire della “nuda vita”, non esprime più adeguatamente il modo d'essere dell'uomo; quest'ultimo non è più “cerchio”, egli è l'andante, il sempre uscente, l'uomo è “retta” (parola, per l'appunto, cioè grido, appello, preghiera). È una delle grandi tesi del pensiero occidentale: la nostra intelligenza e il nostro cuore ci portano a Dio, ci conducono a Dio, ci spingono ogni volta sempre più in là, verso quell'estremo più-in-là che è Dio stesso.
Questa tesi – che è quella dell'homo viator, dell'essenziale inquietudine agostiniana, dell'oltre pascaliano… – si contrappone con decisione a un'altra concezione, anch'essa da sempre presente all'interno del pensiero occidentale; secondo questa altra concezione l'apertura a Dio sarebbe l'effetto del fallimento, e non del compimento, della ragione e del desiderio: le cose non vanno, nel mondo trionfa l'ingiustizia, il male dilaga, quindi non resterebbe altro da fare che “passare” a Dio. Quest'ultimo si confi gurerebbe così come l'estremo consolatore che viene in soccorso di una ragione e di un desiderio in se stessi sfasati, mal funzionanti, come un orologiaio – è un esempio di Leibniz – il quale, avendo costruito male un orologio, si vede costretto a intervenire di continuo per far funzionare ciò che altrimenti non funzionerebbe. All'interno di una tale prospettiva il “cammino”, l'aprirsi-a Dio, non è il segno di un compimento, di un glorioso “sentire”, bensì di un fallimento, di un cupo ri-sentire, è una forma di ripiego per riuscire in qualche modo a tirare avanti. Contrapponendosi a questa interpretazione dell'esperienza religiosa Ruini afferma: «[Qui] la religione mantiene una funzione consolatoria ed è comunque concepita come un fenomeno “secondario”, rispetto a qualcosa di più autentico di lei. Anche le teorie dell'alienazione urtano dunque contro quel carattere originario dell'esperienza religiosa che abbiamo messo in luce» (p. 45).
Tuttavia – ecco la seconda tesi – un simile “carattere originario” non si confi gura mai come una sorta di innatismo, non si impone mai come un vincolo necessario e soprattutto necessitante; il “religioso” è infatti quel legame esclusivo, unico, che rinvia per sua stessa natura alla libera risposta – libera proprio perché risposta e non semplice reazione – del singolo uomo. Eccoci di fronte a uno degli snodi a mio avviso più delicati e decisivi. Conviene a tale riguardo riportare per intero un passaggio dell'intervista. L'intervistatore, dopo aver ricordato l'affermazione dell'antropologo Julien Ries secondo la quale «l'homo religiosus è l'uomo normale dell'umanità», osserva: «Non è un'affermazione di poco conto». Ruini risponde: «È un'affermazione molto importante, non signifi ca però che ogni uomo sia necessariamente religioso. Aggiungo un'altra affermazione, forse ancora più impegnativa, di Eliade, spesso ripresa da Ries: “Il sacro è un elemento della struttura della coscienza, e non un elemento della storia della coscienza”.
Lo studio delle religioni e della religiosità mostra chiaramente […] che l'uomo è un essere aperto alla trascendenza, un “ricercatore di infi nito”, come ha scritto Ries. Tutto ciò non è la prova dell'esistenza di Dio, o in genere di una realtà trascendente, ma non è nemmeno qualcosa di irrilevante, in rapporto al sorgere della domanda su Dio e ai tentativi di darvi una risposta. Quantomeno, se non c'è alcun Dio, dovremmo concludere che il soggetto umano è uno strano risultato dell'evoluzione dei viventi, un suo frutto sbilanciato che porta dentro di sé uno squilibrio profondo, ben più radicale di ogni altro squilibrio riscontrabile in natura» (p. 41).
Il soggetto, conviene ripeterlo, non sceglie di aprirsi, e neppure di mettersi in cammino; riprendendo un termine heideggeriano, si deve riconoscere ch'egli è gettato nell'apertura, è gettato in una ragione e in un desiderio che lo aprono al cammino verso il sempre-oltre; ma, detto questo, si deve pure affermare che tale gettatezza (Geworfenheit) non è una condanna, poiché l'apertura deve anche essere sempre scelta e il cammino deve anche essere sempre percorso personalmente: il soggetto è infatti sollecitato dalla sua stessa ragione e dal suo desiderio a quel cammino, che tuttavia, proprio perché tale, può compiere solo personalmente. «Alla fi n fi ne» sottolinea Ruini «l'autentica fede in Dio è stata sempre una scelta che richiede un coinvolgimento personale » (p. 20). Di conseguenza, così come nel volume non si segue la strada della folgorazione e dell'illuminazione, bensì quella della storia (nel sottotitolo si parla del “cammino della ragione”), analogamente non si segue neppure la strada della pura necessità. Emerge a questo livello, proprio in opposizione all'ordine della necessità, la fi gura del “segno” e della “libertà” personale a essa sempre connessa. Il grande tema, sebbene non esplicitamente affrontato, attraversa e feconda molte pagine del volume, arrivando a farci comprendere come forse, sebbene Ruini non si esprima mai in questi termini, siano proprio la ragione e il desiderio a essere, per eccellenza, «i segni che ci stimolano a credere» (p. 189). A proposito della fi gura del “segno” e di tutto ciò ch'esso mobilita, senza poter affrontare in questa sede una problematica così complessa, può essere utile riportare un magnifi co passaggio de La mia Africa di Karen Blixen: «Devo alzarmi, conclusi, e cercare un segno. A molti pare assurdo, andare in cerca di un segno. Forse perché per riuscire a trovarlo occorre uno stato d'animo speciale, non comune. Ma se si chiede un segno in quello stato di grazia la risposta non può mancare. Non diversamente, nel momento dell'ispirazione, il giocatore raccoglie tredici carte, prende quella che si chiama una mano – un'unità. Dove gli altri non vedono nessuna possibilità, lui vede un grande slam che lo fi ssa in faccia. Ma c'è, nelle carte, il grande slam? Sì, per quel solo giocatore, in quel momento».
Ora, se è vero che ci sono dei segni che ci stimolano a credere, è altrettanto vero che bisogna anche credere nei segni. Nessun segno è segno, nessun segno segna, senza la fede che il soggetto accorda al suo stesso segnare. In tal senso, se è vero che «il nostro punto di partenza è saldamente dentro la medesima esperienza, anzi, è proprio ciò che ci è più familiare, ciò di cui facciamo continuamente esperienza» (p. 110), è altrettanto vero che «tutti i percorsi razionali che cercano di arrivare a conoscere Dio implicano inevitabilmente un passo, o un passaggio, “metafi sico”, nel senso che ci conducono al di là della nostra esperienza e non sono direttamente verifi cabile attraverso di essa» (p. 108). Questo “passo”, dunque, può portare all'al di là ma solo a partire dall'al di qua, o per essere più precisi: solo se si ha fi ducia in quell'aprire al di là che è proprio di quell'al di qua che è la nostra stessa esperienza. Di conseguenza, se, come affermavo in precedenza, la ragione e il desiderio (in assenza dei quali non c'è propriamente esperienza umana) devono essere interpretati come i segni per eccellenza che ci stimolano a credere, allora siamo chiamati dalla nostra stessa esperienza ad aver fede in essi, siamo chiamati a dar credito al loro intimo segnare. «Senza questa fi ducia non si spiegherebbe l'enorme sforzo che il genere umano ha compiuto e compie per allargare e approfondire le proprie conoscenze; possiamo aggiungere che senza questa fi ducia la nostra stessa sopravvivenza nel mondo diventerebbe impossibile» (p. 112). Ecco la terza tesi che vorrei sottolineare: la fede non si trova al termine del cammino, come una sorta di risarcimento o di consolazione per i fallimenti subiti durante il percorso, ma agisce fi n da subito e all'interno del percorso stesso. Il carattere dell'apertura è individuato come il tratto costitutivo della ragione e del desiderio umani – un tratto più originario, se così posso esprimermi, rispetto a ogni potere dimostrativo e a ogni capacità di controllo del mondo – e rinvia in modo essenziale a quella fi ducia, alla libertà di quel dar credito in assenza della quale non potrebbe esserci alcun cammino o avventura autenticamente umani.
Evidentemente, si può fare l'elogio della ragione e si può esaltare il desiderio dell'uomo senza tuttavia avere alcuna vera fede nei loro confronti. Si possono riconoscere, con intelligenza e sensibilità, i segni che si incontrano senza tuttavia aver fede nel loro segnare: ci si può così arrestare di fronte a essi, magari incantati e sorpresi, senza però impegnarsi nel cammino a cui essi con insistenza sollecitano.
In un acutissimo e breve racconto di Stefano Benni (Coincidenze, raccolto in L'ultima lacrima) si narra dei ripetuti incontri tra due “sconosciuti”, un signore e una signorina. Un giorno i due si fermano al centro di un ponte e il signore, facendosi coraggio, si rivolge alla signorina: «Gentile signorina, pur non conoscendola, mi permetto di rivolgerle la parola per segnalarle una strana coincidenza, e cioè che questo mese, se non sbaglio, è la quindicesima volta che ci incontriamo esattamente in questo punto – Non sbaglia, cortese signore – Mi consenta inoltre di farle presente che ogni volta abbiamo sotto braccio un libro dello stesso autore – Sì, me ne sono resa conto: è il mio autore preferito, e anche il suo, presumo – Proprio così – Inoltre, se mi permette, ogni volta che lei mi incontra, arrossisce violentemente, e per qualche strana coincidenza, la stessa cosa succede anche a me – Avevo notato anch'io questa bizzarria – Potrei inoltre aggiungere che lei accenna un lieve sorriso e, sorprendentemente, anch'io faccio lo stesso».
Il racconto prosegue con la descrizione di molte altre coincidenze, di «una serie di coincidenze davvero fuori dal comune»: «Aggiungerò, prosegue il signore, che dopo averla incontrata, io provo per alcune ore una sensazione strana e piacevole», e lo stesso accade alla signorina.
Il racconto fi nisce così: «In tutti casi ciò che ci è accaduto è davvero singolare. Una serie impressionante di coincidenze, è impossibile negarlo. Forse un giorno ci sarà una scienza in grado di decifrare tutto questo. Intanto le chiedo scusa del disturbo – Nessun disturbo, anzi è stato un piacere – La saluto, gentile signorina – La saluto, cortese signore – E se ne andarono di buon passo, ognuno per la sua strada».
Si può avere paura di fronte ai segni, in particolare di fronte a quei segni umani per eccellenza che sono la ragione e il desiderio; l'uomo resta libero di non seguire il loro segnare, può scegliere di non dare alcun credito alla loro illimitata apertura, limitandosi così a utilizzarli e controllarli. Tuttavia su un punto è bene non ingannarsi: non c'è alcun bisogno di attendere il futuro per trovare una scienza in grado di decifrare l'insistere dei segni, soprattutto perché una simile “scienza” già esiste, ed è una “scienza” rigorosissima, anche se drammatica, fatta di libertà, decisione e responsabilità. Certo, la fede nella ragione e nel desiderio (come essere all'altezza della ragione e del desiderio?) non è ancora la fede in Dio, ma quest'ultima senza la prima rischia in ogni istante di trasformarsi in quella mera credenza che così facilmente, come ho già sottolineato, si rivela essere una facile consolazione.
Osserva Ruini: «Dedicare la nostra intelligenza alla ricerca di Dio non è l'unico modo per trovarlo, e nemmeno il più importante. È però un aspetto da cui non si può prescindere, se non vogliamo creare una frattura in noi stessi, per la quale con il desiderio del cuore possiamo essere credenti, ma l'intelligenza non sa il perché, o addirittura è convinta che di Dio si possa sapere nulla, e forse non ci sia» (p. 12).
© Vita e Pensiero, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata.
© RIPRODUZIONE RISERVATA